La vita e i libri: Il “Don Chisciotte” di Cervantes

Don Chisciotte non muore, sono le parole conclusive di una recente presentazione del capolavoro cervantino fatta da Américo Castro per l’edizione messicana Porrua. Non solo non muore ma continua a imporre la sua lezione, e questa è la tesi di un libro molto stimolante, anche se non sempre definitivo e conclusivo, di Marthe Robert, L’ancien et le nouveau: de don Quichotte à Franz Kafka, pubblicato dal Grasset. E il discorso potrebbe continuare su un altro piano, quello dei puri rapporti estetici e letterari, grazie al libro di un professore inglese, E. C. Riley, Cervantes’s Theory of the novel, uscito a Oxford.
Come si vede, un discorso infinito e che di anno in anno si va allargando e ramificando. Un discorso che alla fine si riassume in una domanda: quale è il modo vero di leggere il Don Chisciotte? Quale senso dobbiamo dare a quella favola? Beninteso, ogni lettore porta dentro di sè la risposta che gli sembra più adatta, più legata all’intima verità del libro. Ma detto questo, si capisce anche che non esiste una sola chiave, anzi che proprio un libro come il Don Chisciotteesige la possibilità di cento soluzioni diverse: la sua natura non è semplice: prima di tutto è critica, in quanto cerca di riportare quella che apparentemente è una favola nel quadro esatto della nostra esistenza. Da questo punto di vista ha ragione la Robert quando sostiene che Cervantes apre una nuova epoca e per la prima volta offre alla letteratura il destro di perfezionarsi nei propri limiti, di vivere libera e per conto suo.
La favola non si placa in lezione più o meno accettabile e nessuno crede che la faccenda si risolve con il ritorno alla saggezza di don Chisciotte e con la sua morte edificante. Anzi, proprio il nuovo cammino comincia di lì: don Chisciotte subisce la sorte comune a tutti i mortali e il suo libro si salva dall’incendio dei libri “falsi e bugiardi”. Se ci ostinassimo a trovare una spiegazione normale al Don Chisciotte, saremmo costretti per forza a procedere per esclusioni o malintesi, in quanto il libro di Cervantes non ha un’unica verità, una sola possibilità di interpretazione ma è lo specchio delle incertezze e delle perplessità dell’uomo nuovo, dell’uomo moderno. C’è però un punto di unità che corre tutto il libro e va indicato nel carattere drammatico della sua rappresentazione. Anche il lettore più sprovveduto avverte che oltre la favola, oltre le avventure e i casi più o meno ridicoli di quella trasformazione c’è un’ansia, c’è una ricerca che dà un senso più alto al fenomeno della follia. Non è sostenibile che tutto sia giuocato fra un errore portato sulla realtà e il disinganno, la delusione che la stessa realtà fa ….mentre sembra più probabile che l’eroe di Cervantes cercasse al di là dei fatti e al di là della sua stessa fantasia qualcosa di fisso e di eterno.
La Robert ci ricorda che tutta la letteratura moderna, la letteratura che ha accettato lo straordinario legato cervantino, obbedisce allo stesso impulso:è una letteratura che corre alla ricerca di qualcosa che né la società né le regole superiori dello spirito riescono a soddisfare e a placare. Fino a raggiungere la posta??? estrema rappresentata da Kafka, il quale, di fronte all’impossibilità di raggiungere una conclusione, decide di bruciare i suoi libri. La letteratura sarebbe dunque, un premio della distruzione, dopo essere stato quello della libertà o, per essere più precisi, la prima arma di questa libertà intellettuale, e spirituale. Beninteso, si tratta di una letteratura che non si prefigge come scopo la pura dilettazione, l’abbandono, bensì di una letteratura che risponde all’ultima categoria dell’invenzione totale o – per restare fedele al messaggio di don Chisciotte – una letteratura che è l’essenza stessa della vita.
Questo è un punto su cui gli studiosi del Cervantes non hanno smesso di insistere e di ritornare e, del resto, anche oggi lo riprendono il Castro, il Riley e – naturalmente – la Robert.
Se i libri sono soltanto degli oggetti d’inganno, di illusione, non si vede perché non si dovrebbe bruciarli. L’autodafé del Don Chisciotte sembra rispondere a questa soluzione ma va aggiunto che si tratta della soluzione minore, della soluzione comune che è poi quella che fa della letteratura una attività puramente complementare. Naturalmente non è di questa condizione che ci dobbiamo interessare, ma dell’altra, quella secondo cui i libri hanno un peso sulla vita e la possono modificare. Questo è stato il grande punto di tutta lòa letteratura maggiore e e che proprio alla fine dell’altro secolo ha sconvolto l’ordine e la pazienza di grandi scrittori come Mallarmé e Valéry. Il libro in assoluto, il libro con la maiuscola – sempre secondo la Robert – andrebbe ricollegato con la follia di don Chisciotte, cioè con una radicale correzione della realtà. Lo scrittore chje si limita e riprodurre e a rappresentare il mondo ha una scelta o possibilità di scampo che gli scrittori in assoluto non hanno: in ogni caso, è sempre uno che sta dall’altra parte e si limita a registrare. Lo scrittore donchisciottesco sta su un piano completamente diverso e non teme di travolgere con sé tutto il mondo, proprio come faceva l’eroe di Cervantes, il quale impavido, imperterrito si muoveva in un mondo fisico, in un mondo della fantasia ma che in quel preciso momento aveva una forza che mancava al mondo dei regolari, dei lettori puntuali della realtà.
E ancora, che senso bisogna dare alla furiosa sete di lettura che teneva Cervantes come Kafka? I due lettori che fissano la ricerca di Marthe Robert non erano vittime di una mania, non obbedivano a un gusto: involontariamente, inconsciamente aggiungevano alla realtà immediata qualcosa che appartiene soltanto alla fantasia e al nostro bisogno più alto che è quello di sapere e di conoscere. Castro ha perfettamente ragione a farci osservare che le strade di don Chisciotte non passano mai per le città ma attraversano la campagna aperta, portano a piccoli borghi, si arrestano alle porte di povere osterie. Non, dunque, la verità ufficiale, la verità codificata interessava l’uomo accresciuto che era don Chisciotte, l’uomo fuori del normale, fuori della legge comune. Proprio come sarebbe accaduto al protagonista del Castello kafkiano, a chi mai avrebbe potuto accettare la verità ministeriale, la verità burocratica.
In fondo tutti questi nuovi eroi della letteratura postcervantina, tutti questi eredi dichiarati o nascosti del Don Chisciotte rifiutano la schematizzazione della realtà e, ancor di più, le verità d’obbligo e ripetute o limitatrici. L’uomo che non sembra folle, l’antichisciotte è il vinto in partenza, il rinunciatario a priori. Di qui la mancanza di spirito di ricerca, il facile acquietarsi nella vita del gregge, l’altro, il figlio di chi non voleva ricordarsi del nome del proprio paese, ha ambizioni diverse, più alte e non si rassegna e, nei casi fortunati, fa coincidere i libri con la vita, trova un’unità che lo salva dalla morte anticipata o dalla vita che ripete meccanicamente la morte.
“È bene rileggere il Don Chisciotte in questo tempo di certezze meccanizzate e di minacciosi dogmatismi e di disumanizzazione …” sono altre parole conclusive di Castro, come non dargli ragione?

“Corriere della Sera”, 16 luglio 1963