Il Natale che non dimenticherò mai
Natale del 1960. Mia madre, che da parecchi anni soffriva di fegato, in dicembre si mise a letto, era debole, tutte le sere aveva qualche linea di febbre. Non era un’ammalata triste e neppure brutta da vedere, anzi, nonostante l’età, era una bella vecchia sempre molto accurata nella persona: i capelli bianchi ben pettinati, un velo di cipria rosea sulle guance, una camicia da notte rosa e intorno al collo un velo anch’esso rosa, che annodava a fiocco sotto il mento. “Non voglio rattristarvi col mio aspetto, diceva”, e ci riusciva. Era di carattere positivo e sereno, la malattia non le faceva paura, come non le faceva paura la morte, di cui non parlava, ma cui alludeva, certe volte, parlando come di un fatto che non riguardasse lei, oramai alla fine della vita. Io consapevole che la sua malattia era inguaribile ne aiutavo la finzione. Riuscivamo bene tutte e due a crearci una specie di parte, che eravamo contente di recitare, da attrici consumate. Il giorno di Natale c’era il solito pranzo tradizionale, si sa. Mia madre non poteva mangiare se non poche cose. Come regalo natalizio, quell’anno, oltre a piccole cose che la rallegravano come se fosse bambina (ma sapevo che fingeva anche l’allegria, per ricompensarmi d’avere pensato a lei), le portai un cesto di frutta enorme confezionato con arte dal fruttivendolo. Frammischiato a bacche rosse di pungitopo, con le belle foglie verdi puntute, c’erano arance, mele, pere, banane, ananas e grappoli d’uva bianca e nera dagli acini grossi come noci. Quel cesto la rallegrava davvero: “Mettilo ai piedi del letto”, disse, “lo voglio avere sotto gli occhi. Ci metterò un mese a mangiare tutta quella frutta ma la mangerò. Intanto, dammi un chicco d’uva bianca. E, a proposito di bianco, sai che cosa voglio quest’estate, io che sono sempre stata vestita di scuro? Un vestito di seta bianca.” Risposi: “Intanto ti ho portato questa sciarpa di chiffon bianca, guarda, la puoi mettere anche a letto.” La mise, e intorno al viso pallido, là sotto leggera come una nuvola le diede un aspetto evanescente; mi pareva un’ombra, l’ombra della donna ch’era sempre stata. Mangiò il chicco d’uva ma con fatica. Si immalinconì: “Vedi, quello che mi dispiace è di non potere più mangiare quello che voglio. Ero una buona forchetta, ricordi? E un’altra cosa mi dispiace: non potere andare al mare. Lo vedo, da qui, guarda come è bello, è tutto azzurro, vorrei andare, sì, vorrei andare verso il mare.” Disse proprio così: vorrei andare verso il mare, come se fosse un verso. E vi andò. Vi andò, prima di sera, quando il tramonto, in quel paese dell’estrema riviera ligure, poiché la giornata era serena, finiva in un trionfo di rosso puro come il rubino. Vi andò senza accorgersene, con la sciarpa di velo bianco, reclinando il capo come se volesse dormire. E io, da quel lontano Natale, non oso più mettere piede sulla riva del mare: temo di incontrarvi, sebbene non creda ai fantasmi, e neppure all’al di là, l’ombra leggera di mia madre, vestita di bianco, così leggera, leggera, tutta vestita di chiffon bianco.
Marise Ferro
Marise Ferro
nella cultura italiana
del Novecento
Milano, 18 ottobre 2006
Sala Montanelli, via Solferino 26
ore 15-18.30
Saluto del Presidente
della Fondazione Carlo e Marise Bo
Giovanni Bogliolo
Saluto del Presidente
della Fondazione Corriere della Sera
Piergaetano Marchetti
Moderatore:
Alessandro Cannavò
Monica Cedrola
Marise Ferro, una scrittrice senza tempo
Stefano Verdino
Tra paesaggi e personaggi: la narrativa di Marise Ferro
Isabella Bossi Fedrigotti
La scrittura narrativa di Marise Ferro
Benedetta Biasi
Marise Ferro giornalista. Elzeviri e inchieste 1931-1966
Anna Nozzoli
Storia e memoria del secolo breve: “La guerra è stupida” e “La donna dal sesso debole all’unisex”
Ursula Vogt
Marise Ferro una traduttrice coraggiosa nelle sue scelte
Ingresso libero
Prenotazione obbligatoria tel. 02. 29532248