Cavaliere della Perplessità
Torna il memorabile studio che Miguel de Unamuno
dedicò nel 1905 al capolavoro di Cervantes
Nel quarto centenario del Chisciotte di Cervantes si inserisce il centenario della Vita di don Chisciotte e Sancio Panza di Miguel de Unamuno (1905), due capolavori: della creazione e dell’interpretazione. Corrado Bologna, nella sua fine e generosa introduzione alla nuova edizione italiana, sottolinea che Unamuno ci fornisce la “Guida per renderci perplessi”, ed è forse l’indicazione più preziosa per accedere all’universo di Cervantes e al mondo di Unamuno. Vi arriviamo per la via sovrana dei creatori che hanno eletto Chisciotte come compagno di cammino. Corrado Bologan ritrova e ci propone le pagine bellissime di Ivan Turgenev: “Che cosa rappresenta don Chisciotte? La fede innanzitutto; la fede in qualcosa di eterno e incrollabile, la fede nella verità insomma…Don Chisciotte è totalmente pervaso di fedeltà a un ideale, per il quale è pronto a sottoporsi a ogni possibile privazione, a immolare la propria vita, quella vita che apprezza solo in quanto essa può costituire un mezzo di espressione concreta dell’ideale, di affermazione della verità e della giustizia sulla terra…Vivere per se stesso, preoccuparsi di se stesso, per don Chisciotte sarebbe stato vergognoso” (Amleto e don Chisciotte, 1860). Pochi anni prima (1855-56) Turgenev aveva composto e pubblicato il suo “Chisciotte”, il Rudindei molti ideali e del vano trascorrere nella società del “moderno”. E all’uno e all’altro resterà fedele, traducendo in russo (1877), l’ultima eroina della “pura perdita” di sé, la Félicité di Un cœur simple di Flaubert.
Ma Unamuno aggiunge alla fede di Chisciotte quella, non meno profonda, di Sancio, umanissima remissione a ciò che ci è caro perché nasce dal dubbio, dal credere perché non vogliamo abbandonare ciò che una volta fu scelto:”La fede di Sancio in don Chisciotte non fu una fede morta, di quelle che si fondano pacificamente sull’ignoranza; non fu fede di carbonaio e tanto meno di barbiere, di quelle che si fondano su otto reali. Era invece fede vera e viva, fede che s’alimentava di dubbi. Poiché solamente coloro che dubitano credono davvero, mentre coloro che non dubitano mai e non sono soggetti a tentazioni contro la propria fede non credono realmente. La vera fede si nutre di dubbio… e se ne alimenta e si conquista momento per momento, proprio come la vera vita si alimenta della morte e si rinnova. Una vita in cui non vi fosse un po’ di morte, senza alcun disfacimento nel suo continuo farsi, non sarebbe che una continua morte, una quiete di pietra.”
Anche don Chisciotte muore perché nasca, alla fine del romanzo, Alonso Quijano el Bueno (parte II, cap. LXXIV), avendo ladciato che gli altri buttino dalla finestra l’ultimo idolo che l’aveva temprato, i libri di cavalleria, e con essi le sue imprese, la sua vita, senza neanche av ere la visione di Félicité, quel povero pappagallo che sale nei cieli –mentre essa muore – volo e figura dello spirito santo. Muore don Chisciotte povero di tutto, anche dei suoi sogni.
E in questa pura perdita di sé, nella nuda povertà dell’essere, s’aprono al Novecento due letture del Chisciotte, quella di Ungaretti – proposta qui accanto – che fa del povero, del “faqir”, dell’”uomo di pena” che porte su di sé il male di vivere, l’uomo di libertà, e di veggenza, l’uomo che ha tutto raccolto nella contemplazione del proprio pensare. E quella di Unamuno, che vede nella povertà la nostra vergogna di figli di Adamo, la nostra crudele sete di accumulo per non scoprirci in fuga dall’Eden, ove mai più torneremo: “E non v’accorgete che anche nella nostra società è più potente l’orrore per la povertà che la sete di ricchezza?… Oggi il delitto, il vero delitto, è quello di essere poveri; tra le varie società umane, quelle che si professano più progredite e colte, si distinguono per l’odio che portano alla povertà e ai poveri…Staremmo per dire che si vogliono sopprimere i poveri e non la povertà; sterminarli, come si trattasse di sterminare uno sciame di insetti dannosi” (parte II, cap.XLIV). Pagine così volte al presente sono frequenti nel libro di Unamuno, sono la testimonianza, intrepida e dolente, di un uomo nato in uno dei vicoli più grigi di Bilbao (1864), restato orfano di padre a sei anni, votato all’insegnamento come pane e come vita sino alla cattedra di letteratura greca all’Università di Salamanca (1891), di cui sarà poi rettore (1901-1914), Tradurrà l’estetica di Benedetto Croce, pubblicherà nel 1913 Del sentimento tragico della vita e nel 1920 il parallelo alla sua lettura del Chisciotte, il poema – tragico, corale, sublime – El Cristo de Velázquez. Coronerà la sua visione “agonica” del vivere umano l’Agonia del cristianesimo, 1925, una meditazione serrata da Agostino a Pascal, da Kierkegaard a Chestov. La sua morte, il 31 dicembre 1936, coincide con l’agonia della Spagna, di cui aveva celebrato l’indomita potenza di sogno e ideale, e che Unamuno ricapitola nel superbo commento al capitolo sull’”elmo di Mambrino”: “In poche avventure don Chisciotte ci appare più grande che in questa, nella quale la sua fede si impone a quegli stessi che se ne facevano beffe, e li spinge a difenderla a cazzotti e a pedate e a soffrire per essa. A che cosa si deve tutto questo? Semplicemente al coraggio che egli ebbe d’affermare al cospetto di tutti che quella bacinella, ch’egli stesso vedeva come tale al pari di tutti gli altri, con gli occhi della carne, era invece l’elmo di Mambrino, visto che a lui serviva proprio come tale. Non gli mancò ‘quello sfrontato eroismo d’affermare che, battendo forte il piede a terra, o pallidamente levando gli occhi al cielo, crea scienze e religioni attraverso l’universale illusione’, come dice Eça de Queiroz alla fine della sua Reliquia” (parte I, cap. XLV).
Don Chisciotte, reliquia di quelli che “battendo forte il piede a terra”, come Davide intorno all’Arca, fecero del cammino umano dolce ricordo di quella divina danza: “Pastorcillo, tú que vienes, / pastorcillo, tú que vas?” (Don Quijote, II, LXXIII).
Miguel de Unamuno, Vita di don Chisciotte e Sancio
Panza (1905), introduzione di Corrado Bologna,
traduzione di Antonio Gasparetti, Bruno Mondadori,
Milano 2005, pp.366
“Il Sole/24 Ore”, Domenica, 20 febbraio 2005, n. 50, p. 31