Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Lampedusa. Chi era costui? Fino a ieri nessuno poteva dire che questo fosse il nome di uno scrittore. Quanto al singolare personaggio che portava quel nome, anche per me, fino a poco tempo fa, Lampedusa (Giuseppe Tomasi principe di) era il nobile signore siciliano che nell’estate del ‘54 accompagnò il poeta Lucio Piccolo, suo cugino, a ricevere il battesimo letterario in un convegno che si tenne a San Pellegrino Terme. Si doveva svolgere là un serie di conferenze o presentazioni: scrittori anziani, o comunque già noti, avrebbero dato un augurale via a giovani scrittori alle prime armi. Avvenne però che molti degli autori intervenuti si conoscessero solo per corrispondenza e che in altri casi tra l’anziano e il presunto giovane non corresse gran divario d’età. Il poeta Lucio Piccolo, per esempio, giunto da Capo d’Orlando (Messina), non poteva dirsi giovanissimo; eppure nessuno stupì vedendolo tenuto d’occhio da un Mentore, o da una guida, tanto egli incarnava il tipo del poeta assorto nei propri sogni e forse incapace di destreggiarsi da solo in quella imbarazzante congiuntura.
Nemmeno quel giorno, tuttavia, io sospettai che il principe di Lampedusa (gentiluomo che in gioventù doveva essere stato biondo, alto, massiccio, elegante, silenzioso quel tanto che non gli impedisse qualche battuta piena di humour) potesse essere o diventare uno scrittore non secondo a nessuno dei letterati là presenti. Eppure così andarono le cose. Ci informa Giorgio Bassani, al quale si deve la prima conoscenza e il recupero del romanzo oggi uscito postumo (Il Gattopardo, Feltrinelli), che questo importante libro fu scritto, forse in pochi mesi, da Lampedusa al suo ritorno da quel torneo letterario. Può darsi che la doccia di vivente e militante letteratura subìta allora dal principe fosse lo stimolo, la causa occasionale a cui dobbiamo il bellissimo libro: il primo e anche l’ultimo perché Tomasi di Lampedusa si spense a Roma nel luglio del ’57, all’età di sessant’anni. Opera prima, anzi unica; ma non c’è dubbio che Il Gattopardo sia un libro che l’autore ha portato e nutrito in sé per tutta la vita e che probabilmente non ebbe dallo scrittore le ultime cure.
Formalmente quasi perfetto rivela un artista maturo e aggiornatissimo; ma nel taglio, nel succedersi dei singoli episodi non è sempre armonioso e proporzionato. Dopo due capitoli iniziali che un grande naturalista dell’Ottocento potrebbe invidiargli, il romanzo si indugia nei meandri di un idillio giovanile che forse troppo ci porta al clima dell’odierna “prosa d’arte”; e nella seconda parte il moralista e il romanziere non sempre camminano di pari passo. Inoltre, una figura che appariva secondaria, quel Don Pirrone, che credevamo un semplice Don Basilio, pretende tutto un capitolo a sé, rivelandosi di colpo buon cristiano e uomo assennato. Ma poi il libro si risolleva da queste pagine minori – pur sempre attraentissime – e ritorna nei due capitoli finali alla primitiva robustezza narrativa.
È difficile trovare antecedenti al Gattopardo; lo sfondo (Sicilia 1860) può far pensare al De Roberto dei Vicerè, ma lo scandaglio psicologico, il sarcasmo e il quasi feroce uso del bisturi sono di uno che non ignora Brancati: mentre l’affettuosa ricostruzione, il gusto della vecchia stampa possono ricordare Guido Nobili e altri scrittori di libro unico, di quelli che erano cari al Pancrazi. E, infine, bisogna concludere che simili richiami non spiegano nulla. Forse Il Gattopardo è la riduzione di un romanzo fiume che dal Lampedusa non fu mai scritto. Una riduzione, intendiamoci, tutta mentale, interna: che è la causa degli squilibri accennati, ma anche quella della novità del libro. Se il romanzo storico tradizionale poté giovarsi di una lieve patina di noia (tale è per il lettore ingenuo il senso del tempo che fluisce lentamente) nulla è più lontano del Gattopardo dagli schemi del romanzo storico. Eppure il senso della storia, il trapasso delle generazioni, l’avvento delle nuove classi e dei nuovi miti, il declinare della nobiltà feudale e l’alquanto ipocrita trionfo delle “magnifiche sorti” sono la materia stessa e l’ispirazione del romanzo. Nel quale pochi personaggi bastano a lumeggiare la straordinaria ambivalenza spirituale dell’autore.
Diviso tra opposte inclinazioni è il principe Fabrizio di Salina, personaggio fondamentale del libro. Ricco feudatario, la sua fortuna è minacciata da una signorile incapacità a non lasciarsi derubare. Orgoglioso del suo titolo e del suo censo, e dunque tradizionalista, egli porta tuttavia, in sé i semi dell’illuminismo; buon dilettante di astronomia, corrispondente di Arago, non può nascondersi che per i privilegi della sua casta le ore sono contate. Favorisce perciò le simpatie di un suo nipote spiantato, il principe Falconeri, per il movimento di liberazione dei “piemontesi”. Anche re Borbone ne è informato, e ricevendo Salina nella reggia di Caserta lo mette sull’avviso: “Salina, stammi a sentire. Quel tuo nipote Falconeri… perché non ci rimetti la testa a posto?”. “Maestà, ma Tancredi non si occupa che di donne e di carte”. “Salina, Salina tu pazzii. Responsabile sei tu, il tutore. Digli ca’ si guardasse ‘o cuollo. Salutamo”.
In attesa dello sbarco dei garibaldini, Salina si ritira nel feudo di Donnafugata, con la moglie, i numerosi figli, l’attaché ecclesiastico, padre Pirrone, e il fedele cane Bendicò, una delle più vive “persone” del libro. Più tardi li raggiunge Tancredi Falconeri, ferito e decorato; Palermo è occupata dai patrioti e il giovane ha servito egregiamente a salvare la famiglia Salina da quella che oggi si chiamerebbe l’epurazione. Una grande carriera s’apre a Falconeri, ma Salina rinuncia a dargli in moglie la figlia, Concetta, ragazza alquanto frigida che non potrebbe nemmeno aiutarlo con una ricca dote. Salina favorisce invece il matrimonio di Tancredi con la bella Angelica, figlia di un contadino arricchitosi con sistematiche spoliazioni dei suoi vicini, don Calogero Sedàra. Scaltra, aggressiva, stupendo tipo di ragazza meridionale dalle gambe un po’ corte, Angelica renderà più celere la scalata di Tancredi ai posti di comando della politica. E anche al principe di Salina un piemontese, certo Chevalley, emissario del prefetto di Girgenti verrà ad offrire il laticlavio; ma ne otterrà un netto rifiuto. È mai possibile che uno che fu Pari del Regno di Sicilia vada a sedersi in un’assemblea di parvenus? Si pretende con questo di fargli onore? La cosa è addirittura ridicola! Salina, d’altronde, non sa nulla del Senato; questa parola gli ricorda soltanto “il senatore Papirio che spezzava una bacchetta sulla testa di un Gallo maleducato”. Ma la ragione del suo rifiuto è ben altra.
Privo di illusioni, a Salina manca la capacità di ingannare se stesso. Vadano dunque i giovani (e perché non anche don Calogero Sedàra?) a giostrare attorno all’ornatissimo catafalco del Senato. E poi è proprio vero che bisogna agire, fare qualcosa? “Il sonno, caro Chevalley, è ciò che i siciliani vogliono. […] In Sicilia non importa far bene o far male: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare”. Forse non conosce ancora , Chevalley, il paesaggio siciliano? “Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti anche, del passato, magnifici, ma incomprensibili perché non edificati da noi […]; tutti questi governi sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove: tutte queste cose hanno formato il carattere nostro, che così rimane condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità d’animo”.
Il lettore ha già compreso; il laticlavio andrà all’usuraio Sedàra. Il nuovo Regno, seguito dalla diffidenza di Salina, si avvierà verso le magnifiche sorti guidato da uno dei pochi siciliani svegli o semidesti, Crispi; Salina, ormai defraudato di alcuni feudi, si sprofonderà nei suoi studi astronomici finché la morte lo coglierà, nel luglio del 1883, in un albergo di Palermo. Gli sono accanto le tre figlie nubili, la principessa Falconeri ormai vedova, e due figli maschi. Il terzo maschio, anche lui un semidesto come Crispi, è assente: vive in Inghilterra e commercia in pietre preziose. E la morte di Salina è la morte di un sapiente e di un giusto; non è un dramma, “ma lo svuotamento, il minutissimo sgretolamento della personalità congiunto al presagio del riedificarsi altrove di una personalità (grazie a Dio) meno cosciente ma più larga”. Pagine larghe e nude nelle quali tutta una vita è riassunta con l’abbagliante chiarezza e velocità di una folgore.
La storia ha anche un epilogo. Nel 1910 le tre zitelle vivono ancora in ciò che resta dell’avito palazzo dominato dall’insegna del gatto rampante. Immerse in pratiche religiose hanno riempito a cappella di casa di false reliquie acquistate buttando via gli ultimi spiccioli del patrimonio paterno. Dopo una visita del cardinale arcivescovo, un sacerdote da lui inviato deciderà che solo poche reliquie hanno titoli di autenticità. Il resto dovrà essere gettato in un angolo del cortile e la cappella sarà riconsacrata. Con le false reliquie farà un salto dalla finestra anche il vecchio cane Bendicò, imbalsamato. “Durante il volo la sua forma si ricompose un istante; si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi […]. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida”.
La singolarità di un’architettura che gli americani direbbero ginger bread, bislacca, non impedisce che questo Gattopardo a cui si potrebbero togliere o aggiungere alcune scene (e in ciò ricorda Roma di Palazzeschi, forte libro mal tagliato e dominato da un unico personaggio) sia un libro di sorprendente unità spirituale: un libro di un grande signore, di un grande snob nel più alto significato della parola, di un uomo che tutto ha compreso della vita, di un poeta-narratore dotato di una implacabile chiaroveggenza e di un sentimento dell’esistenza ch’è insieme stoico e profondamente caritativo. Ed è un peccato che un breve riassunto non possa suggerire le qualità più alte di Lampedusa artista e moralista: la sua virtù di pittore di paesaggio e d’interni, il suo dono di fare vivere una folla di figure che sono troppo vere per essere semplicemente “veriste”. A lettura finita ricordiamo tutto del Gattopardo e siamo certi che prima o poi vorremmo rileggerlo da capo a fondo. E ci chiediamo di quanti libri dell’ultimo decennio si possa dire altrettanto.
“Corriere della Sera”, 12 dicembre 1958