Il paese dell’uomo

Dove conviene fissare il cuore delle Marche? Chi vede la storia della civiltà attraverso il dominio delle arti non ha dubbi e dice: Urbino. Chi invece ritiene opportuno privilegiare il mondo della religione dirà subito, Loreto. Infine chi ha imparato a sillabare il discorso poetico su Leopardi dirà semplicemente, Recanati. Lasciamo da parte Urbino che è già stata studiata e restiamo fra Loreto e Recanati o per essere più precisi in quella fascia che da Osimo ci porta fino a San Benedetto del Tronto. Non è soltanto una delle parti più nobili della regione, è senza dubbio quella più conosciuta e più facilmente raggiungibile da tutti. Non solo dai fedeli delle diverse religioni che farebbero qualche sacrificio pur di raggiungere la loro terra  promessa ma dalla gente comune, da quanti si limitano ad attraversare questa striscia sull’autostrada e da quanti la scelgono per le vacanze. Sono altrettanti modi di avvicinarsi a uno dei domini ancora intatti o non del tutto contaminati del nostro Paese e li ricordiamo qui per alludere subito a quello che è il carattere principale di questa terra: alto e semplice, lontano e così familiare, apparentemente accessibile ma in effetti geloso e in grado di difendere la propria originalità. Va detto che questa provincia ideale che va al di là dei confini di Macerata e di Ascoli e, per la punta superiore, di Ancona, ha un minimo denominatore comune: la bellezza del paesaggio, quella bellezza che forse deve essere completata dal gusto e dalla sapienza architettonica di chi ha costruito i paesi e le città. Intanto c’è un disegno spostato sempre sulle colline; chi si limiti a passare rapidamente in queste terre non potrà mai dimenticare lo spettacolo di questa rappresentazione nobile: Castelfidardo, Osimo, Loreto, Recanati e giù giù fino a San Benedetto che per essere sul mare obbedisce al compito di introdurci a Ascoli Piceno. È uno spettacolo perpetuo con ogni tempo: lucente e splendente con il sole, drammatico con le nuvole, misterioso e affascinante di notte, quan­do la visione di Loreto assume aspetti orientali (un po’ come accade a chi guardi i torricini di Urbino dalla strada di Urbania). Le Marche vivono per aria, sospese dentro un’idea di poesia quanto mai libera, per cui anche la storia che è stata spesso illustre non ha più peso specifico e viene assolta da un’altra pronunzia delle cose. Ma non basta, questa linea magica dell’orizzonte interno è sostenuta dalla bellezza della campagna, dalla dolcezza delle colline, da tutta la musica che la nostra memoria riesce a strappare dal gioco delle luci, dalle lente trasformazioni dei colori, dagli interventi delle stagioni. Quello stesso essere tra i monti e il mare (secondo l’indicazione leopardiana) ci suggerisce di trovare una collocazione che non sia soltanto geografica epperò esige l’innesto poetico. Ma questa prima lettura non sembra sufficiente, non basta leggere le Marche in prossimità del mare o che guardano al mare, è necessario tagliare questa linea litoranea con le stupende valli che portano dal mare ai monti: anche qui è tutta una serie di suggestioni che ci portano a correggere e a accrescere le prime impressioni. La valle del Chienti che sembra scoppiare di vita in tutte le direzioni, terre ubertose, piccole industrie, ecc. e poi quella del Tronto e oltre queste che hanno una fisionomia più chiara, le innumerevoli piccole valli che appena si lasciano intravvedere dal passante frettoloso e che forse sono più gonfie di mistero. Fino all’ultima guerra questa terra è rimasta intatta, fedele ai tratti che il tempo le aveva impresso, era la terra dell’idillio e in gran parte lo è rimasta dal momento che le Marche costituiscono un mondo a parte, separato, fuori delle grandi strade di comunicazione e con l’Abruzzo rappresentano l’ultimo baluardo prima di toccare il mondo così diverso e per buona parte ancora lontano del meridione. Chi scenda l’Italia per l’Adriatico ha molto più netta la sensazione di questa progressiva diversità. Dopo Pescara non ci sono più grandi città e del resto la stessa Pescara è qualcosa che arresta per un momento la discesa incominciata proprio dopo San Benedetto.
Ma ripartiamo, ricominciamo da dove ha avuto inizio il nostro discorso. C’è Osimo che si adatta benissimo a questa geografìa ideale del colle e delle cittadine costruite in alto, un tempo per difesa dagli aggressori che venivano dal mare e oggi perfettamente inserita in un altro ordine che potremmo definire dell’arte naturale. Osimo come un po’ tutte queste città sospese obbedisce a due o tre momenti fondamentali: le mura, la chiesa, la piazza. Il tutto sciolto e fuso nel colore dei mattoni che sta fra il rosso e il giallo. Città di campagna e che vivevano di campagna hanno avuto poi un primo tempo di trasformazione con un artigianato di alto livello e un secondo con qualche timido tentativo industriale. Qui siamo nel mondo delle fisarmoniche e il nome di Osimo, il nome di Castelfidardo sono stati ripetuti in tutta l’Europa e senza esagerare possiamo aggiungere in tutto il mondo. Industria simbolica se si vuole pensare al suono di questi strumenti, alla loro carica nostalgica, alla rappresentazione che deriva dai balli che su questa musica si intrecciano. La terra cioè esprime un sentimento umile che sopporta appena il disegno e il ritmo della città, proprio come avviene con la struttura di queste città così composte, così frammiste alla vita dei campi e alle eleganze delle case, anzi alla cultura che nei secoli è stata così fervida e autonoma. Si pensi al padre del Leopardi che per certi aspetti –  più propriamente quelli culturali – è un miracolo maggiore e più inspiegabile di quello del suo figlio geniale. Ma di Monaldo Leopardi probabilmente ce n’erano un po’ da per tutto, a Loreto, nelle ville di campagna, soprattutto a Fermo. Quando ci si ferma, quando si passeggia per quelle strade si ha la sensazione di risuscitare uno spettacolo dell’intelligenza che molto difficilmente potremmo avere altrove. Restano le case, certi segni di ricchezza artistica, i grandi nomi dell’arte e non conta se ora tutto è o sembra vuoto, abbandonato, quasi ci fosse passato un esercito nemico e il tempo abbia funzionato da minima bomba artigianale, per cui sono scomparsi gli uomini, quegli uomini, e sono rimasti intatti e spesso perfetti le case, i palazzi, le strade. A volte si ha l’impressione che dopo questi interventi del tempo ci sia stata un’opera di depurazione e di esaltazione insieme e l’uomo sia riuscito a non oltraggiare troppo l’imitazione di Dio, di chi ha creato questa natura straordinaria. Vogliamo dire che c’è una corrispondenza fra arte e campagna, fra il disegno di certe ville e il disegno dei colli, fra chi ha operato con la sua maestria dentro le mura e chi, per esempio, ha tracciato queste mirabili stradine di campagna, insomma fra l’artista con tanto di storia e di nome e chi è stato portato dal bisogno e dalla necessità a non violare l’armonia di questi colli. Sono proprio le strade della poesia, dove la necessità è annullata, nascosta dall’eleganza del tracciato: la strada concepita come piccolo segno della presenza umana in un quadro naturale che non ammette altri interventi o distorsioni o, peggio, imposizioni. Anche qui siamo di fronte a una geografia sospesa, appena materializzata ma nella volontà tesa verso l’alto, quasi che le strade non dovessero portare a un paese o verso le grandi strade di comunicazione ma a delle terrazze tutte poetiche, a un mondo sospeso tra miracolo e fiaba, in una dolcissima musica, la musica delle piccole eterne verità quotidiane. Penso alla rete di strade sul filo delle colline che da Loreto portano verso Filottrano e Treia e su su fino a Cingoli e poi da Cingoli precipitano – ma sempre con grande dolcezza – verso Jesi. È soltanto un esempio e che si può moltiplicare all’infinito scendendo verso Fermo, verso Grottammare e Ascoli. Possono variare le altezze, intorno a Macerata e a Fermo la struttura montuosa è diversa ma non muta la componente principale che è quella di un certo abbandono, di una struggente partecipazione al gusto e alla parola dei paesaggi. Tutte cose che si ritrovano nell’opera degli scrittori marchigiani. Un verso famoso, “le vie dorate e gli orti”, ha nutrito la fantasia di molte generazioni e nulla sembra poterlo scalfire, è un’essenza estratta da un’intelligenza d’eccezione volta a scrutare le ragioni e le disperazioni dell’uomo, per cui un’immagine della terra suona come un segno di pace, l’ultimo orlo sul lago del nulla. È la sospensione che sgorga improvvisa dal terrore del mondo, dalla nozione del male, dal sentimento della notte del cuore che gli scrittori che sono venuti dopo hanno saputo conservare e restituire secondo la forza delle loro voci. Pensiamo a Luigi Bartolini di Cupra Marittima che ha dilaniato la sua esistenza fra questi due momenti e tanto più cupo era il suo desiderio di rivolta e di protesta, tanto più penetrante era la sua dolcezza, la sua improvvisa emozione di fronte alla natura. Se infine cerchiamo di arrivare al fondo di questa contraddizione, scopriamo che è il riflesso della natura stessa di questa terra, il segno del contrasto che c’è fra la partenza attraverso quelle dolci colline e l’approdo ai contrafforti dell’Appennino, alla solenne e ancora struggente bellezza dei monti Sibillini. Fra questi due mondi le distanze non sono grandi e anche le cittadine che stanno ai piedi dei monti più alti ripetono nelle strutture della loro architettura il modello della costa picena. È sempre l’uomo che tenta di superare gli ostacoli e di trovare una composizione, un modus vivendi, la voce della storia della piccola patria. Che è poi sempre l’antica ed eterna disposizione alla poesia, altro cielo sospeso su una gente che di per sé sembra adatta soprattutto al commercio civile, a un certo tipo di animo industrioso. La stessa agricoltura obbedisce a questo criterio di attenta, scrupolosa e a volte avara amministrazione. Niente in grande, tutto sempre a misura d’uomo: piccoli campi, coltivazioni sperimentate da secoli e rispettate. Soltanto in anni abbastanza recenti si è passati all’industrializzazione, per esempio, del vino e dell’antica arte dei ciabattini: il vino di Jesi, poi più tardi quelli del Potenza e i calzaturifìci della zona di Sant’Elpidio e Civitanova. Ma sono industrie che non tagliano dietro di loro i ponti con il passato epperò le fabbriche non cancellano l’operosità degli artigiani, dei lavoratori casalinghi. Se c’è economia sommersa, essa è piuttosto qualcosa che rientra in una secolare attitudine al lavoro che non un accorgimento e una forma di evasione fiscale: è – meglio – un momento di passaggio dentro il giuoco dell’evoluzione della società. Per onestà bisogna aggiungere che questa pazienza, questa abitudine al lavoro hanno avuto diversi momenti nel corso dei secoli per cui se si va all’origine di questi mestieri si capisce meglio come si sia innestata sul tronco originario di queste scelte una seconda ragione che appartiene ancora al dominio dell’arte. È un artigianato artistico, per esempio, quello che ha dato il modo alle monache di Potenza Picena di agire il sistema dei telai, piccolo monumento di una naturale sapienza umana. Naturalmente non si arriva di colpo a costituire patrimoni del genere che il tempo poi tarda a dilapidare attraverso le trasformazioni della società. Del resto, è un tutto che raccoglie varie espressioni di vita: il lavoro, la cucina, il divertimento o come si diceva un tempo il passatempo. Basterà alludere al modo di preparare certi salami come il ciauscolo, al giuoco del pallone quale è stato praticato nelle varie città delle Marche (sempre il Leopardi), alla serie dei prodotti d’arte (i vasi, le terracotte): un elenco che da solo basta a segnare il corso dei giorni, la giusta alternanza tra lavoro e riposo, la forza della famiglia, la vita delle campagne. Leggendo il Leopardi recanatese o marchigiano non è impossibile tracciare sotto la carta delle sue interrogazioni drammatiche un paesaggio che se non lo contraddice, per lo meno lo anima, lo completa, e l’altro volto della realtà, sia pure quello dell’illusione. In questo mondo tutto sembra fatto a posta per conciliare l’uomo con la natura attraverso un processo di scambi e di echi, di qui l’impressione di teatro, del migliore teatro possibile che sia stato concesso all’uomo di ieri.
Per il fatto stesso di essere una terra separata, la sua storia ha seguito un ritmo ridotto rispetto al resto dell’Italia ma è stato un ritmo che le ha consentito di durare più a lungo e in un mondo più composto. Che è poi il ritmo della campagna e di conseguenza della civiltà contadina. Ma è esatto parlare di civiltà contadina soltanto? Fra città e campagna non c’è rottura, c’è invece un sistema di vasi comunicanti sostenuto più che da una ragione politica da una ragione religiosa. Non mi sembra che nella storia di questa marca ci siano state delle rivolte sanguinose, c’è stato uno spirito illuministico che ha potuto aprirsi e manifestarsi anche sotto il dominio della Chiesa ed è grazie a questo spirito che si sono avuti i gruppi anarchici, i sussulti del primo socialismo specialmente in Ancona. Già a poca distanza non c’è stata nessuna occasione di rivolta, il piccolo mondo contadino o artigiano lasciava passare questi stimoli, questi brividi sulla sua pelle e non si trattava appena di influenze secolari, di imposizioni accettate ma piuttosto di una diversa filosofia, di un altro modo di concepire la vita. Anche in occasione di guerre, anche quando si affacciavano i francesi e i piemontesi su queste campagne «amene» non si è andati più in là di semplici e non definitivi allineamenti, la storia passava sopra, senza intaccare il fondo vero di queste popolazioni.
Anche la rivolta del Leopardi sfiora la pace e la tranquillità di queste zone, anzi è lo spettacolo di questo distacco, l’intuizione di questa filosofia naturale e non detta che vanno a formare il fondo della sua insofferenza e del suo desiderio di libertà. Era il suo un modo di fantasticare che non trova radici nella storia del quotidiano piceno, nell’avvicendamento inalterabile dei giorni. Non direi che oggi le cose siano cambiate ma quando si parla della Marca bianca in contrapposizione a quella rossa, che va da Ancona a Pesaro non bisogna qualificare questo colore politicamente, è il bianco dell’apparente inerzia, dell’apatia che poi a ben guardare sono indici di altre disposizioni naturali e di altre virtù. All’osservatore esterno può risultare che questa sia la terra del rifiuto indolore e della sottrazione alle grandi responsabilità o sia soltanto la conseguenza del lungo periodo di addormentazione della Chiesa ma sono apparenze, la realtà è diversa e diverso il metro di giudizio delle cose e poi della storia. Diciamo allora che è una visione molto concreta della vita, una sapienza di giudizio da applicare volta per volta agli uomini e alle loro vicende epperò sarà opportuno tenere presente il doppio registro, quello delle risposte evasive o marginali e quello della presenza sotterranea e segreta. C’è una civiltà di crosta e una civiltà di fondo, l’accondiscendere alle ragioni e alle imposizioni del momento e la fedeltà a una trama non esaltata e non sposata dall’esterno. Questa prevalenza del passato o dell’antico o dell’eterno così come lo possiamo concepire non significa che non ci sia l’attenzione al presente o, come si dice oggi, al sociale. Non dimentichiamo che proprio in questa marca fra mare e monti è nato Romolo Murri, quella che agli inizi del secolo è stata la voce più alta in difesa del ceto popolare e a suo modo ingenuo e illuso fondatore di religioni politiche. Cosa che ci riporta a uno dei dati primi dell’anima marchigiana, il senso del concreto, i motivi del fare e subito dopo il freno sugli eccessi e le illusioni. È un concerto ben orchestrato, anche se dominato nei momenti più alti dal poeta di Recanati che, nonostante tutto, non riesce a cancellare la traccia delle sue origini e la memoria della sua formazione.
Ma non solo in Leopardi troviamo questo tipo di scarto per cui dall’umile realtà quotidiana si salta alle domande assolute sulla nostra identità segreta, direi che lo stesso paesaggio rispetti questo doppio registro e ne concilii i contrasti e le contrapposizioni. Basta affacciarsi a certi balconi – quello del palazzo comunale di Recanati, quello del palazzo dove ha sede il circolo di Fermo e, meglio ancora, la serie di finestre nel palazzo arcivescovile di Fermo che è in via di sistemazione – per godere di paesaggi straordinari dove per l’appunto l’ampiezza non annulla la misura umana delle cittadine, delle loro strade e dei loro palazzi (a ben guardare, non c’è una grande differenza fra palazzi e case comuni, soltanto quella certamente definitiva della grazia artistica). Si può vedere in una mattina chiara dal palazzo del Vescovo di Fermo un panorama d’eccezione, si parte da Pescara e si risale al Conero, poi si piega verso Macerata e quindi si arriva ai “monti azzurri” del Leopardi, i Sibillini. Ma questo non è un privilegio esclusivo di Fermo o di Recanati, proprio perché questa Marca è adagiata sulle colline, tutti i paesi – anche i minori, quelli che non sono stati ancora raggiunti dalla curiosità di massa – offrono di questi spettacoli. Si direbbe che il marchigiano contrapponga all’abitudine e alla regola dei suoi traffici e delle sue opere l’eccezione dell’occhio libero, il riposo o l’intervallo della passeggiata sulle mura. Perché questa terra così discreta è anche una terra di conversazione fra amici, di colloqui che un tempo si protraevano fino a notte avanzata. Gusto del colloquio che dava un tempo vita ai «Circoli dei nobili» e poi «cittadini» o «di lettura» epperò si potrebbe scrivere un itinerario o meglio un viaggio attraverso i circoli marchigiani: ce ne sono di ricchi ma i più sono poveri e conservano poche tracce dell’antica eleganza. Comunque, sono luoghi d’incontro e stanno a indicare che qui esisteva questa esigenza, questo bisogno di ritrovarsi per leggere e discutere delle minuscole vicende della “piccola patria” quando non esistevano né radio né televisione e i grandi quotidiani avevano qualche difficoltà per arrivare in tempo. In antico (ma qui bisogna leggere quaranta, cinquant’anni fa) quando nevicava – ed è un’altra delle grazie di questo paesaggio di miracoli – la vita si interrompeva o veniva sospesa: le strade restavano bloccate, la luce elettrica mancava, i mucchi di neve restavano a lungo per le vie delle città e si tornava di colpo al grande passato e c’erano giorni sospesi fra il fascino di un evento magico e il gusto della riservatezza e il piacere dello starsene in casa.
Una terra quindi non soltanto separata ma anche una terra che ha saputo scegliere i suoi momenti di autenticità e qui si passa ai tesori d’arte che sono conservati nei musei nelle chiese e soltanto in casi eccezionali in case private ma anche qui bisogna stare attenti. L’organizzazione dei musei non ha creato un muro fra il quotidiano e l’eccezionale e del resto ci sono monumenti all’aperto conservati e che costituiscono l’orgoglio di piccolissimi centri: sono il marchio che li distingue e li esalta. Qualcosa che sembra essere nata artigianalmente e il tempo ha saputo proteggere. Cosi come i signori di un tempo proteggevano gli artisti che venivano a lavorare da fuori, coincidenze che poi sono state consacrate in precisi binomi: Loreto e il Lotto, Ascoli Piceno e il Crivelli. Quando non ci sono stati più i principi, borghesi illuminati hanno preso il loro posto e ne hanno continuato l’opera, valga per tutti il museo Piersanti di Matelica.
E in senso molto lato rientrano nell’arte tutte quelle iniziative artigianali che in tempi più recenti sono state trasformate in imprese. Qui il primo posto spetta all’arte della pesca che presenta una gamma molto ricca di risorse e di spinte, passando dall’iniziativa personale dei piccoli nuclei familiari alle grandi organizzazioni di tipo industriale, come è avvenuto a San Benedetto del Tronto che ospita nel suo porto una delle maggiori flotte del nostro Paese. La pesca con le sue naturali appendici, prima fra tutte la cucina. C’è un modo particolare di cucinare il pesce che ha avuto e ha tuttora a Porto Recanati una grande scuola del “brodetto”, un brodetto che si distingue da quello molto forte che si prepara nel mare di Ravenna per una maggiore delicatezza: segno permanente della civiltà marchigiana che ha conservato i tratti di una cucina d’origine contadina fatta di tagliatelle e di lasagne (con la variante aggiunta di derivazione austriaca, i “vincesglasse” in omaggio a un generale del Papa). Poi carni e pesce arrosto. Una cucina che prende dalle regioni confinanti certi piatti di base e questo lo si vede nella presenza dei “cappelletti” romagnoli al nord e nella novità dell’oliva farcita, nella zona di Ascoli. Quando si entra in Abruzzo la tavola cambia quasi totalmente, adeguandosi alla ricchezza del meridione. Tutto sommato nelle Marche anche la cucina non si distacca da una linea di sobrietà e di gentilezza.
Le piazze – lo ripetiamo – sono il cuore dei paesi e delle città; Ascoli non solo si adegua alla norma ma presenta con la sua famosa piazza un esempio unico di fantasia e di eleganza domestiche. Con la piazza vanno ricordati i caffè e sempre in Ascoli, di tutta questa marca la più fedele nella sua architettura e nella sua toponomastica alla lezione di Roma, non si può saltare il caffè Meletti che offre al passante nelle belle stagioni un’ora di pace, quale sarebbe invano sperare di trovare in altri centri italiani. Spesso accanto a queste piazze illustri che facevano la gioia di grandi scrittori-viaggiatori come Valéry Larbaud ci sono le piazze del mercato, i “mercatali”, oggi naturalmente un po’ modificati ma fino all’altrieri grandi sedi commerciali. Il mercato riportava per un giorno la vita nella disposizione un po’ pigra di queste città e in occasione delle feste religiose costituiva l’altro volto – quello pagano – dell’anima marchigiana in apparenza così fedele al cuore cattolico di Roma.
Proseguendo per una “rua” di Ascoli ci si trova immediatamente immersi nella campagna che sta per abbandonare la dolcezza della pianura e rivestirsi del silenzio e dei colori della montagna e poco dopo si tocca Acquasanta dove molti anni fa un altro famoso camminatore, Gide, trovava il segno di una particolare bellezza. Passata Acquasanta si può scegliere: o si va verso Roma o si piega di nuovo verso il centro di questa Marca, verso Macerata per una delle più belle strade d’Italia, una strada tutta alberi e dove si passano altri mondi, altre cittadine, altri esempi, sempre distinti gli uni dagli altri, sempre liberi e autonomi. Un po’ come il cuore di questo marchigiano che pende più verso la personalità, la distinzione dell’individuo che non verso una comunione esteriore. Che sono poi i tratti essenziali della sua anima e che in questo rapidissimo viaggio ci è capitato tante volte di segnalare e ricordare. In sostanza è il paese delle sottili e silenziose corrispondenze, un paese dove l’uomo ha saputo trovare una sede che non contraddica l’aspirazione alla libertà e alla dignità. Un paese nobile, nel giusto senso del termine, perché si adatta alla natura della terra, sapendola sfruttare senza mai violarla o offenderla. Un piccolo miracolo, cosa da non dimenticare quando si passa per le nuove grandi strade imposte dal progresso: da ammirare come spettacolo e soprattutto come esempio di umani equilibri.

— Carlo Bo

Introduzione a I lieti colli. Fotografie di Pepi Merisio.
Testi di Ermete Grifoni. Edizioni Bolis, Bergamo
1981, poi in Il paese dell’animaScritti sulle Marche 
e i marchigiani. A cura di Ursula Vogt. Banca delle
Marche – Il lavoro editoriale, Ancona 2000