Quel che resta del ‘900

Nella sua casa di via Maria Teresa in un giorno al tramonto Carlo Bo racconta i libri che per lui fanno capire meglio il secolo che se ne sta andando. Al prossimo Salone del Libro di Torino si parlerà di questo 95 per cento del XX secolo già trascorso e di questi cinque pochi anni che ci restano. Tuttolibri proporrà un incontro su “Testi e documenti del ‘900”. Si svolgerà indietro lo sguardo, per tentare un bilancio.

Carlo Bo, 84 anni, lo fa ora. Tiene gli occhi sul pavimento fumando il toscano e dice: “Mi sento accerchiato dai libri. Tutte le sere passo attraverso questo cimitero.”

È scontento, pentito?

“Leggere è l’unica cosa che so fare: è una malattia, un vizio non punito, come lo chiamava Valéry Larbaud. Io ho letto la mia vita, non l’ho vissuta. E ho sempre il pensiero che sarebbe stato meglio dedicarsi ad altro; qualche opera di bene valeva più la pena.”

Letteratura come vita, l’antologia dei suoi scritti, ha quasi 1700 pagine. Non la soddisfa?

“Ci sono parole.”

I libri della sua vita. Chi è il primo autore?

“Risale al tempo del liceo presso i gesuiti di Recco quando venne a insegnare Sbarbaro: ci leggeva l’Antigone e ogni tanto parlava della poesia moderna. Mi è nato allora questo vizio della letteratura. Lessi l’Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra, morto giovane nella prima guerra mondiale. Prima di tornare al fronte Serra scrisse questo Esame dove si chiede cos’è la letteratura e se la guerra poteva modificarla. Rispose di no. La letteratura è per lui una specie di religione e io ebbi l’impressione che poteva esserci nella letteratura qualcosa di solenne, di altamente morale, non solo compiacimento e divertimento. Serra mi ha insegnato che la letteratura è introduzione all’intelligenza mortale della vita, è un richiamo a qualcosa al di là della realtà e delle apparenze. È domanda, ricerca. Disse: ‘Il mio nome è uomo’. Mi ha spinto a cercare oltre la letteratura e la critica pura, a scostarmi dalla legge del tempo, la lezione di Croce, separare l’opera dalla vita.

La prima guerra ha posto alla letteratura un dilemma tragico: o fare come D’Annunzio, esaltare le ragioni del sangue e dei più forti, degli eroi, o fare come Serra, porsi come approfondimento, scandaglio. Da una parte l’esasperazione delle proprie idee, dall’altra il dubbio. Faccio qui il secondo nome per me importante: Miguel de Unamuno, uno dei padri dell’esistenzialismo, uno scrittore esiliato da Primo de Rivera, sopportato dalla Repubblica, malvisto da Franco. La vita coincide per lui con l’atto dell’angoscia e della domanda perpetua, la sua opera è fatta di gridi di disperazione e di dolore. Sostiene non la forza ma la coscienza.

L’immagine più bella di Unamuno è l’immagine del poeta che dopo aver passato la giornata coi giovani dell’Università di Salamanca discutendo e giocando con paradossi profondi, arrivata la notte si sedeva nel suo studio e si faceva le domande più assillanti e drammatiche. Morì maledicendo la guerra mentre udiva il passo dei tedeschi nella strada. Gli è venuto un accidente dalla rabbia. Ricordo oggi il suo diario poetico e la ricerca di una bellezza pensata e scolpita, il suo amore per il Leopardi della Ginestra e la sua Agonia del cristianesimo, dove agonia è frazione attiva di morte, lotta eterna, confronto tra parola e silenzio. Rileggo i suoi piccoli versi e mi percuote ancora, mi sento denudato, sono dentro di lui, parla anche per me. Questo credere che anche noi possiamo sbagliare, che nella storia degli uomini c’è sempre un’incognita, una x che non dipende da noi e che è il frutto della lenta costruzione di una filosofia superiore…

L’importanza di Unamuno, di Gide, era qui, nel fatto che si opponevano alle certezze, alle violenze, a una vita quotidiana e pubblica vissuta con fede inerte, negativa. Pensiamo al clima di quegli anni, a quel sospetto e quell’odio. Pensiamo alla fuga degli ebrei, al loro sterminio, al rogo dei libri in Germania. ‘Quando sento parlare di cultura, tiro fuori la rivoltella’, disse il generale Queipo de Llano, e non si sa se è lui che inventa questa battuta o la riprende da Goebbels. E il generale Pétain trovò che fra le ragioni della sconfitta francese c’erano scrittori come Gide.

È Gide il mio terzo autore. Combatteva alla luce del sole con se stesso, con Dio, con le passioni; Bernanos combatteva nelle tenebre. Ha contato molto, per me, Bernanos. Come Mauriac. Gide era un bravo fabbro della sua figura e della sua fama, ma nel suo Journal a tratti butta l’abito curiale e mette in discussione se stesso. ‘Non seguitemi, combattetemi’, ha scritto: ha chiesto di esercitare la critica. Non va dimenticato. Mi ha insegnato l’amore della vita, l’impossibilità della salvezza senza il coraggio della confessione. Può sembrare un’ingenuità da parte mia schierarmi dalla sua parte, ma mi resta la sua fede nella letteratura, il suo costante negarsi alle mode e ai traffici letterari. Ecco perché io e molti altri giovani d’allora siamo andati a scuola della rivista di cui lui era il primo suggeritore, La nouvelle revue française. Tutto questo è stato portato via dal vento della guerra e dall’avvento delle ideologie. Ecco Sartre, il mio quarto nome, l’anti-Gide.

Sartre l’ho studiato come fenomeno, come macchina prodigiosa di suggestioni, suggerimenti, imposizioni. Al contrario di Gide non aveva dubbi: cambiava posizione; i dubbi li aveva prima di ogni cambiamento. Gran parte dei suoi romanzi sono illeggibili. L’ho recensito fra i primi: preferisco i racconti degli inizi, la Nausea, dove il personaggio Roquentin si limita a galleggiare sul mare della nausea. Sartre ha una visione del mondo pratica, suscettibile di essere realizzata. Mette le idee prima delle passioni ma è un passionale: il contrario di Camus, sempre vigile, legato al dubbio. È il mio quinto autore. Ho amato Lo straniero, il romanzo del divorzio fra l’uomo e le cose, come disse Sartre. E ho amato i suoi saggi, il suo auspicio di una nuova visione dell’umanità dopo la tragedia della guerra, di un mondo senza più né vittime né carnefici, di un cristianesimo senza Cristo. Mi ha dato una grande sensazione di moralità, l’insegnamento del doversi guardare dentro.

La metamorfosi mi impressionò. In Kafka si accentrano tutti i grandi temi della letteratura: la solitudine, Dio, la giustizia, la paura, l’uomo che vive nel deserto, l’uomo che si trasforma in animale braccato e umiliato dalla società, il terrore degli altri uomini. Kafka entra nella storia delle mie letture come chi ha riproposto la grande lezione dell’800, a cominciare da Dostoevskij. È un trattato sull’uomo nel nostro tempo, un profeta.

L’ultimo autore è l’emblema dei poeti italiani: Dino Campana, portato via dalla chimera ai confini della follia, poesia che si fa balbettamento e incespicamento, scomposizione del mondo (mentre in Kafka c’è la decomposizione): poeta che cerca, sempre sul punto di cogliere il vero assoluto e che ricade subito dopo nell’impotenza e nel silenzio totale della mente.

Sono questi i miei sette testimoni del ‘900. Cinque nomi che ho fatto non sono italiani: la formazione europea è un vanto della mia generazione, rinforzato dal fatto che negli anni 30 tutto ciò che suonava europeo era guardato da noi con diffidenza.”

C’è qualcosa che accomuna i suoi scrittori?

“Sono contro la violenza e le compiacenze letterarie. Sono scrittori del dubbio: una tensione che c’è stata e non c’è più. Interrogano Dio…La mia stessa fede è portata al dubbio, mi sento legato dentro una rete di dubbi, in un tempo che sembra godere di certezze e sicurezza per quanto riguarda la fede: sono un credente bloccato. Ho una fede senza spirito di carità, la fede del pessimista. E con l’invecchiare, con l’approssimarsi della morte, aumenta la percezione del peccato, lo scetticismo, l’impotenza, l’ormai. Non ho fatto quello che avrei potuto fare. Ho peccato di disperazione, ho ceduto all’accidia, al dire che tutto è inutile. Dovrei saper pregare. Mi abbandono nella fiducia del perdono: parole che oggi non hanno più senso.”

Come le appare il secolo che finisce?

“Fatto di fallimenti, macerie, presunzioni, un gran deserto in cui si sente qualche volta l’eco della poesia…Per il secolo sceglierei una lapide: Perdono. Per me: Pulvis et nihil, polvere e nulla: l’ho letta nella cattedrale di Toledo. Oppure: Pietà.”

8 aprile 1995, «La Stampa», tuttolibri
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