Leone Traverso – Incontro a Parigi: Il Marchese di Villanova

Dopo qualche anno di separazione ritrovo il leggendario Don Lasso de la Vega, Marchese di Villanova, Visconte del Burgo, “ci-devant” Conte della Trinità (per gli amici Rafael o “il divino”) a un tavolo del Caffè Mobillon, curvo sul rovescio d’un tagliando, a disegnare archi gotici. Su quei cartoncini quadrati, assai robusti, la stilografica traccia linee, scava ombre, sbalza rilievi – mi assicura – come sui fogli da disegno della miglior grana; e si leva a riprova dal taschino del panciotto e mi sciorina sotto gli occhi una dozzina di altri saggi. Cortili moreschi, polifore a sesto acuto, portali a schiena d’asino, cilindriche torrette cuspidate: non tenta egli di fissare in queste immagini architettoniche la sua nostalgia della Spagna e di Venezia? Egli schiva la domanda che forse gli duole, e si protesta acceso solo del gotico più puro – se anche i suoi disegni mostrino qualche traditrice indulgenza al “fiorito”. E di Parigi vuol subito mostrarmi angoli e palazzi gotici; anzitutto la Rue Hautefeuille, poi quella corte dei Rohan, che tutti ignorano, segreta com’è, chiusa poi di notte da un portone; e un altro giorno s’arriva a certi stupendi edifici tra il ghetto e la Piazza dei Vosgi, dove a pochi oggi può venire in mente d’avventurarsi.

Miracoli dell’amore: quest’uomo reca nella sua memoria talune città che ama, impresse interamente – topografia, storia, cronache familiari, successioni di proprietà, mutamenti di nomi, alterazioni del tracciato – come la maggior parte di noi può ricordare solo la faccia del luogo dove è nato. A strati, secondo le epoche, gli si sono calate dentro e simultaneamente vivono in lui. Così giunge a descrivervi Parigi qual’era prima di Haussmann, anzi di Viollet-le-Duc, come Venezia avanti il Sansovino e non tralascia un’ironica imprecazione, storicamente fondata, dopo ogni “rio terrà” e ogni “gran boulevard” che abbia a nominare.

Chi è dunque questo signore dal passo di bonzo e dal bocchino di avorio che va a diporto con tanto agio pei secoli e non mostra alcuna tenerezza per quello in cui vive? Di lui si conoscono quei cinque o sei volumi di poesie, squisitamente stampati “sibi et amicis” che solo guardarne le date bisognerà un giorno ritoccare le storie letterarie ufficiali; di Londra e di Costantinopoli, di Vienna o di Roma parla come di Siviglia sua città natale; in un anello che porta al dito circonda lo stemma familiare il motto “Ave Maria gratia plena”. A Parigi capitò sui venti anni nel 1908, e dopo fantastiche dilapidazioni e molte peregrinazioni, a Parigi sta ormai per comodo più che per elezione del cuore (“hay ya que starse en un luogo del mundo”); ma il paragone tra lo squallore d’oggi e il fervido tempo antico l’accora, benché nel quartiere di Saint Germain des Prés nessuno possa vantare maggiore e più popolarità. E amici di là, come un tempo a Firenze Delfini o Luzi, si studiano di imitarne per diletto degli ascoltatori, – cadenza e impasto – il linguaggio musivo: spagnolo italiano francese mescolati nella più saporosa “olla podrida”.

Tutto calvo, glabro il volto dai lineamenti puri, ma stranamente maculato (si pensa a un mappamondo), ora ipnotici ora vivacissimi gli occhi, vere fonti di notte, che a tratti invade una malinconia mortale (e un po’ divergente l’uno lacrima in disparte); ricco, non afflitto, d’una salda pinguedine come di una visibile saggezza, mi riappare inalterato da quando lo conosco (una quindicina di anni) fermo in una maturità senza tempo, ma civilmente festevole e pronta al gioco. Tempera, questa giocondità, il piglio naturalmente autorevole e quell’ombra di mistero che – favoriti anche da una indubitabile somiglianza – richiamano alla memoria la figura di Erich von Stroheim, “Ah! Sì, – risponde tranquillo a un amico che gli rileva quella somiglianza – von Stroheim es la mejor imitación de mi mismo, pero en alemán, con dureza”. Nulla infatti di rigido nella sua fermezza o di crudele nella sua severità. E se le sue opinioni, fulminate in aforismi o in sentenze inappellabili, rasentano a volte il capriccio o il dispetto a un interlocutore sgradito,la volubilità mondana del discorso – che da un’immagine un’altra zampilla a ingrossare il flusso delle analogie – ti sbarca infine lievemente a un approdo fatale quanto imprevisto. Non gli si celebri Gide o Valéry; lasciamolo invece evocare la gioiosa vitalità di un Apollinaire (l’ultimo dei poeta francesi per lui, e uno dei tre o quattro grandi: Villon, Rimbaud, Nerval) o la fantasia improvvisatrice di Max Jacob. Né gli si tocchi la Spagna, che per altro dal ’35 rivedrà solo l’estate prossima. Dalla sua bocca molti di noi hanno ascoltato i paradossi più strabilianti, pochissime le vere ragioni (o,ancora e sempre, “la più vera ragione è di chi tace?”). Un’immagine vale per lui cento sillogismi; così sopporta l’incomprensione e l’ingiustizia sua gemella come mali necessari, ma non impuni.

Da una delle sue lettere, sconosciuti capolavori che si direbbero usciti da una penna del sec. XVII: “Nel corso della mia vita spessissimo ho visto scomparire dal mondo in pessima forma quanti mi hanno fatto torto…È infallibile. Perché Dio non può abbandonarmi. Io non ho fatto male a nessuno e mi hanno trattato con viltà, hanno tessuto una rete di sottili fili di menzogne per uccidere l’anima mia, che è di Dio prima che mia, senza accorgersi che i pescatori sono i pescati e che non c’è rete più valida di quella della giustizia.”

Non emana da parole simili non solo un calore di fede che oggi sembra ormai inutile cercare altrove, ma anche un’aura inquietante di magia? Ricordo una frase: “La magia non è possibile; ma quanto è certo è magia”. Non credo che quest’uomo dal volto di maschera lunare, che mai rincasa prima della luna, abbia tentato con alambicchi e storte la pietra filosofale; preferisce certo, e da sempre, la magia bianca del verso. Ma una sera ai “Deux Magots” per alcuni minuti ci spiegò che sia materia. Pareva – salvo il linguaggio composito – di ascoltare un presocratico. Ora come infilare quelle perle sgranate? La materia, diceva a un dipresso, aspira a liberarsi dal peso, farsi riflesso puro; di qui il pregio dell’oro, cosa ormai tutta per gli occhi, perfettamente inutile, perfetta illusione. Così l’uomo aspira all’ultima forma, d’angelo; e il Paradiso era certo una “galérie de glaces” in cui si poteva penetrare.

Ora quale città del mondo attua questo sogno come Venezia? Che fu per altro opera umana, di sagacia politica, prima ancora che arte perfetta, riflesso puro. E credo che per il titolo di patrizio veneto, solo per quello, cederebbe volentieri il suo di Grande di Spagna. “Non è a Venezia che ci si immagina Goethe, dice in un’altra lettera, anzi in Amsterdam con Spinoza; non a Venezia con l’Aretino e il Tiziano. Vuol dire, aggiunge, che l’uomo di Amsterdam non può mai comprendere che sia Venezia, mentre il veneziano conosce Venezia e Amsterdam e anche la mamma che li ha partoriti (come si dice in “habla” castigliana), por que nos de Venzia tenemos más vista que un lince e siamo già di ritorno quando gli altri pensano a mettersi in moto”.

Non disdice un po’ di vanteria a questo veneziano onorario, che col massimo agio anzi con un imperio che ancora sa di magia, tratta il tempo e ne frange le barriere. A dispetto dei nemici, egli assicura, vivrà ben oltre i cento anni (“ya veréis”) e a cent’anni comincerà a scrivere le sue memorie per omaggio alla purissima verità.

A me sembra in certi attimi che come il favoloso conte di Saint Germain non lo possa nemmeno sfiorare un tale incidente, la morte, ma già viva fin d’ora – secondo il motto ch’egli stesso vuole, tra l’alfa e l’omega, inciso sul suo sepolcro – “donde no hay luz ni oscuridad”.

1952

[Rafael Lasso de Vega, marchese di Villanova, Grande di Spagna, è nato a Sevilla nel 1890 e ivi morto nel 1959; tra il 1910 e il 1941 ha pubblicato sedici volumi di poesia. Ha vissuto negli anni ’30 e ’40 per buona parte a Firenze e conosceva tutto il gruppo dei poeti e critici “ermetici”.]