Il Gattopardo e la Certosa
Riprendiamo da “Lettres françaises” un articolo
di Louis Argon che riflette le polemiche sviluppatesi
anche in Francia attorno al libro di Tomasi di Lampedusa
Che cosa conosciamo di Tomasi di Lampedusa, oltre il suo romanzo,Il Gattopardo? Ben poco, qualche aneddoto che stimola la curiosità: che ha cominciato a scrivere Il Gattopardo a 55 anni, che l’ha terminato in due anni ed è morto prima che il libro venisse pubblicato, che era duca e principe. E, come risulta dalla lettura del libro, che era uomo della sua classe, il quale, almeno apparentemente, giudicava le cose dal punto di vista di questa classe. Pensate se di Stendhal non conoscessimo altro che la professione del padre, e il fatto che Henry Beyle si dette uno pseudonimo straniero con tanto di particella nobiliare, e che fu console di Francia a Civitavecchia. Anche di lui si direbbe che il suo era il giudizio di un borghese di quei tempi, e l’indagine si fermerebbe qui. Senonché, una rivista fiorentina, “Paragone”, ha pubblicato di recente alcune Lezioni su Stendhal, scritte da Tomasi di Lampedusa nel 1955, e “Stendhal-Club” ha avuto la felice idea di tradurne due, che sono rispettivamente una nota su Il Rosso e il Nero e su La Certosa di Parma. La lettura di queste note è abbastanza illuminante e, a mio avviso, ci fa apprendere sul suo autore molte più cose di quante ne conoscessimo fino ad oggi.
In generale, la critica aveva la tendenza a vedere nel Gattopardo il punto di vista dello stesso Tomasi di Lampedusa, tanto più che nel suo eroe era facile individuare la figura di un suo bisnonno: I giudizi di quest’ultimo, cioè di un aristocratico che ha il senso della decadenza dell’aristocrazia, erano identificati generalmente con le idee dello stesso autore. Personalmente, avevo in proposito più di un dubbio, e l’ho manifestato in questa stessa sede (Lettres françaises”). Ma mi mancava la conferma che queste Note, invece, ora mi offrono. Proprio quando parla di Stendhal, infatti, un romanziere è portato a parlare più apertamente di se stesso; davanti all’arte di Stendhal è costretto a parlare della propria arte, e senza barare. La grande virtù di questa straordinaria personalità è proprio questa, di scivolare nella vostra coscienza e di costringervi a dire apertamente, senza infingimenti, cose che vorreste dissimulare. Naturalmente, sempre che si abbia un’anima stendhaliana. Nulla, nel Gattopardo, autorizzava ad affermarlo a proposito di Tomasi di Lampedusa, eppure tutto portava a crederlo. Una certa atmosfera. Forse per questo mi sono tanto meravigliato quando, incontrando per caso Moravia, gli ho parlato del Gattopardo e mi sono sentito dire: “È un successo della destra”. Gli ho chiesto allora cosa intendesse dire: “Voglio dire – aggiunse – che sono stati gli uomini di destra a decretarne il successo”. E, perché non vi fosse cioè possibilità di equivoco, alla mia osservazione – che non si poteva che prendersela con gli uomini di sinistra per aver mancato di farne un successo di sinistra – l’autore de Le ambizioni sbagliate precisò: “Intendo dire che è un libro di destra”. L’affermazione non mancò di stupirmi, poiché, per quanto mi riguarda, non so davvero che cosa sia un libro di destra. Nello stesso modo, per esempio, molti hanno giudicato Stendhal uno scrittore per happy few: come poteva un uomo di sinistra scrivere per questa piccola élite felice? E così via. Esiste tutta una esegesi stendhaliana che insiste sul suo carattere di uomo di destra. Di conseguenza, i suoi libri sarebbero stati, lui vivente, degli insuccessi di destra, dei libri di destra. Affermazioni come questa, oggi, non fanno nemmeno più sorridere.
Ma le note stendhaliane dell’autore de Il Gattopardo – oltre a quanto ci dicono del suo modo di leggere Stendhal, oltre a sottolineare il suo interesse “per certi aspetti tecnici” del romanzo stendhaliano, che studia da uomo del secolo che ha conosciuto Proust, Joyce, Virginia Woollf.. – queste note stendhaliane di Tomasi di Lampedusa, dicevo, oltre alle osservazioni sul tempo, il monologo interiore, l’atmosfera, il dialogo, contengono soprattutto un rilievo, espresso dapprima a proposito de Il Rosso e il Nero, ma ripreso poi, con insistenza ancora maggiore, per La Certosa. Mi soffermerò unicamente sullo sviluppo che ne è stato fatto per quest’ultimo romanzo, senza insistere in questa sede sugli altri elementi, se non quando illuminino simultaneamente Stendhal e il so commentatore, e soprattutto diano un più preciso profilo di quest’ultimo. Innanzi tutto, il nostro autore di destra segna all’attivo di Stendhal una serie di intenzioni che spesso la stessa critica di sinistra gli ha negate. Riconosce in lui l’intento essenziale di descrivere la realtà storica, e per di più da scrittore partigiano: “So benissimo – dice – che Ernesto VI è un immondo personaggio, delineato ricalcando le figure di Francesco II d’Austria e del giovane Carlo Alberto; so che di ‘fiscali Rassi’ la terra (e l’inferno) sono pieni, so che la Torre di Parma è un luogo di supplizio degno del Piranesi e del resto desunta tanto dalla realtà di Rubiera che dalle narrazioni di Pellico e Maroncelli circa lo Spielberg, mi rendo conto che il conte Mosca è un perfetto ritratto di quei ministri e ministrucoli, assolutamente egoisti e privi di scrupoli, copia ridotta e peggiorativa del loro grande modello Metternich, mi accorgo di quanti tradimenti, pastille avvelenate e colpi di pugnale è tessuta la trama del romanzo; dirò di più, so benissimo che Stendhal voleva indignare il lettore contro tali uomini e tali metodi…”.
In altri termini, Tomasi di Lampedusa, identifica perfettamente l’intento politico di Stendhal, scrittore di sinistra. Ma, al pari di Stendhal – il quale, dopo aver intuito l’essenza della realtà politica del suo tempo, afferma che nel romanzo la politica fa lo stesso effetto di un colpo di pistola – l’autore del Gattopardo aggiunge subito alle righe precedenti: “Lo so, ma affermo che non me ne importa niente; in quanto a me, Stendhal ha fallito il colpo: voleva dipingere l’Inferno, ha creato il più adorabile Purgatorio dantesco “.
Prima di lasciare che si spieghi, come non ritorcere questo stesso rilievo a Tomasi di Lampedusa, o almeno a coloro che si lasciano prendere unicamente dall’apparenza del Gattopardo? Anche a supporre che abbia voluto descrivere una specie di Purgatorio dell’aristocrazia siciliana, egli ha fallito il colpo, perché il suo romanzo è l’immagine perfetta della perdizione di questa aristocrazia, l’immagine colpevole, politica, di questa perdizione, come poteva descriverla solo un uomo che della sua classe avesse fatto una critica spietata, una critica di sinistra. Ma continuiamo, vediamo in che modo egli spiega come possa leggere La Certosa, romanzo politico, senza esserne commosso nella sua coscienza di classe e, nonostante gli orrori che vi sono accumulati, conservare per tutta la lettura di questa drammatica storia un sentimento di leggerezza, d’incanto, di dolcezza, e giurarci che Stendhal narra le cose peggiori in tono di scherzo, tanto è vero che “il risultato di questa accumulazione di parole leggere trattando d’un argomento violento, è l’andatura leggiadra che la narrazione di questi fatti violenti viene a prendere”. Devo dire che questa notazione è estremamente pertinente e che mette a fuoco a meraviglia un certa abilità stendhaliana. Non la trascrivo per controbatterla, ma per sottolineare che questa giusta osservazione è espressa soprattutto per giustificare il duca di Palermo, principe di Lampedusa, per la passione con la quale legge un libro che egli stesso, praticamente, deve riconoscere scritto contro la propria classe. Subito si affretta a spiegare le ragioni per cui Stendhal scrive così. E devo dire che questi nuovi argomenti sostenuti con notevole abilità dal Lampedusa confortano la tesi, già tante volte espressa, di quell’apparente distacco con cui Stendhal guarda alle atroci situazioni che descrive, la tesi per la quale l’autore avrebbe cercato allora di mantenersi distaccato dalla realtà che descrive perché non gli si potessero imputare idee che pure erano le sue, per difendersi eventualmente dall’inquisizione poliziesca.
Dice Tomasi di Lampedusa: “Questo è sempre il tono che Stendhal assume nel momento in cui narra i fatti più violenti. Quando li narra, spesso li lascia indovinare. Perché fa questo in un romanzo che vuol esser tragico ed ‘accusatore’? Per una ragione assai semplice: perché i fatti non intendono essere narrati come sono ma come appaiono al temperamento frivolo, ma nello stesso tempo coraggioso e ‘strafottente’ di Fabrizio, temperamento di ‘uomo di società’ che riduce al proprio livello il mondo esteriore “ E completa quanto ha detto: “Questo modo di narrare è di una difficoltà prodigiosa: l’autore deve restare sempre nella pelle del suo protagonista; e poiché il mondo è visto tutto intero attraverso gli occhi di questi, anche il lettore contempla tutto attraverso quella mente svagata, simpatica, accomodante, signorile e non troppo intelligente…”. “E il lettore è trascinato nel supremo piacere di levità e di spettacolo che effettivamente il mondo fu per Fabrizio del Dongo”. Più avanti ancora: “Il prodigio operato da Stendhal consiste nel aver trasfuso il lettore del 1838 (e del 1955) nell’anima di un simpatico signorino nobile, noncurante, voluttuoso, tiepidamente sentimentale, dei primi dell’Ottocento, e di avergli fatto capire la Paura della Contro-Rivoluzione così come questi poteva capirla…”. Come non comprendere che questa meravigliosa spiegazione, questa giusta spiegazione de La Certosa di Parmanon si adatta soltanto a Stendhal? Allo stesso modo in cui il pittore che ripete incessantemente il ritratto di un altro finisce per prestargli il suoi propri tratti, Tomasi di Lampedusa comprende così a fondo Stendhal proprio perché qui, in realtà, egli spiega Il Gattopardo. Nel Gattopardo tutto è visto con gli occhi non di un giovane Frabizio, ma del vecchio aristocratico: identificare questo vecchio aristocratico con l’autore sarebbe un arbitrio altrettanto grave quanto confondere Fabrizio con Stendhal.
Ma, in verità, qualunque sia il piacere che si prova prendendo uno scrittore di questa tempra con la mano in un sacco che ha lasciato bene in vista appunto perché voi e io ve lo cogliessmo, la Nota su La Certosa non mi avrebbe indotto a questo lungo commento se non vi fosse stato, proprio tra le ultime due frasi che ho citato, un periodo il cui valore e la cui portata sono bene altrimenti generali. È là dove Tomasi di Lampedusa scrive: “Quanti Fabrizi ho conosciuto! Gente per i quali i Federali, i più biechi Prefetti, le guardie carcerarie, gli imbroglioni più sinistri, le sgualdrine più dichiarate erano avvertiti soltanto attraverso i loro lati più superficiali e spesso piacevoli, e con ciò non già per difetto di penetrazione ma per faciloneria e puerile fiducia nella vita. Attraverso tali occhi il mondo è popolato di ‘bravi ragazzi’ e di ‘buone donnette’ e se questi loro eccellenti compagni ne fanno una proprio grossa e irrefutabile è facile scusarli non parlandone, anzi cercando di annullare il ricordo delle loro azioni per timore che quel mondo così armonioso che si era venuto costruendo caschi in briciole…”. Ammirevole apertura sul mondo fascista: queste poche righe contengono quanto basterebbe a dar vita a un romanzo del fascismo, e la loro profondità, pur con quel tono di leggerezza, ci informa sul carattere vero dell’autore del Gattopardo. Nessuna casualità nella scrittura: l’accento inimitabile di testimone del fascismo si accorda musicalmente con quello che ci ha incantati in un romanzo del 1860. L’uomo che in poche parole ha saputo cogliere questa specie di complicità dei Fabrizi con il loro tempo, non ha certo potuto scrivere Il Gattopardo senza che un certo giuoco di specchi, in fondo alla sua coscienza, abbia illuminato al suo spirito, insieme, e l’altro secolo e questo. Cose che ci rivela, e cose che ci nasconde. Una sfida a se stesso del romanziere, che costruisce un mondo in base all’esperienza che ha di un mondo diverso. Stendhal che racconta una storia del XIX secolo sulla falsariga della cronaca di Vannoza Farnese…In questo nostro tempo abbondano i “bravi ragazzi” tipo quel Jean-Paul Guillaume che l’Algeria ci ha un po’ fatto dimenticare, le “buone donnette” come quella moglie di generale che vorrebbe vedere il marito fare a pezzi i giornalisti, gli “eccellenti compagni” che hanno fatto saltare in aria il monumento al Pensiero incatenato di Calandre, e non mancano i Fabrizi per scusarli, o almeno per sforzarsi di “comprenderli”; perché, se si dovesse giudicarli, ciò rischierebbe di ridurre in polvere questo gaio mondo armonioso che è stato costruito dopo il 13 maggio, in nome del Minor Male e in cui, con il pretesto della grandeur, dell’autorità ristabilita, si è lasciato proliferare tanto canagliume, si è snaturata la missione naturale dell’esercito, si è abituata una fazione all’idea, che solo da essa, e non dalla massa, discende effettivamente il potere, si sono portati al governo uomini che come unico merito avevano quello di aver tradito lo Stato, et coetera…Ma manca a noi uno Stendhal o un Tomasi di Lampedusa che ne tratteggino il ritratto con la levità di uno spettacolo.
L’uomo che ci induce a tali idee, questo duca e principe che, in tredici righe, sa dirci sul fascismo assai più di quanto abbia saputo fare in quattro ore di uno spettacolo l’autore de I sequestrati di Altona (sia ben chiaro, intendo fare un complimento a Tomasi di Lampedusa, non una critica a Jean-Paul Sartre), possiamo davvero giudicarlo con una parola? È veramente di destra? E se lo è, questo che cosa cambia, Signore Iddio? È una vecchia controversia riproposta da Balzac: non mancano i testi dotti o per convincerci che l’autore de Le illusioni perdute era un reazionario. Ci si mettono sotto il naso progetti di legge o di Costituzioni di cui egli vagheggiava. Si insiste fino alla nausea sulla sua mondanità. Eppure, l’opera di Balzac, in definitiva, come quella di Stendhal, è realmente di destra? Ho conosciuto molti autori di sinistra che non si sono mai sognati di ornarsi di una particella nobiliare, che non cercavano di frequentare l’aristocrazia, che anzi potevano vantarsi di essere usciti dal popolo, che dal popolo traevano ispirazione per i loro eroi, che descrivevano unicamente la vita del popolo. Per quanto mi riguarda, se questo può far loro piacere, vengano pure considerati degli scrittori di sinistra (per quel che significa ai miei occhi!). Ma la loro opera, il loro populismo, la loro predilezione per la tranche de vie o per il microscopio li rendono ai miei occhi, assai più di un Balzac o di un principe di Palermo dei reazionari. Non mi permettono, loro, di comprendere il meccanismo del mondo sociale in cui vivo, mentre un duca di Palermo, un Balzac che ha tenuto ad ornarsi del nome di Honoré de Balzacposseggono alla perfezione l’arte di comprendere l’evoluzione della società. Quali che siano le loro idee personali, magari anche reazionarie, la loro opera, immersa com’è nel movimento reale della storia, non può avere alcun carattere reazionario. Forse non sarà di sinistra, ma considerarla di destra è assolutamente un non senso.
Comunque sia, la fame vien mangiando: e si vorrebbe almeno leggere in francese le Lezioni su Stendhal integrali. Ma sono davvero solo questi gli scritti che Tomasi di Lampedusa ci ha lasciato? Qualsiasi abbozzo di un pensiero come il suo, qualsiasi confessione scritta da un intelletto vigoroso come il suo, dopo Il Gattopardo, è di tale importanza che forse la signora Alessandra di Lampedusa, dopo essersi risolta a pubblicare le note su Stendhal, ci offrirà, acconsentirà ad offrirci altri scritti, magari semplici abbozzi, per completare l’eredità lasciata dal marito. Il quale appartiene senza dubbio alcuno agli happy few, vale a dire a tutti coloro che hanno occhi per leggere, un cuore per sentire, un cervello per comprendere.
“Rinascita”, XVII, n.3, marzo 1960, pp.223-226