Figure del silenzio

Si parla del silenzio con le parole: la mia scommessa è di parlare del silenzio con il silenzio. Ricordo che ho avuto due occasioni di avvicinare questa tematica. La prima in uno degli ultimi seminari parigini di Roland Barthes sulla voce e il silenzio, l’altra negli anni settanta, qui a Urbino, dove Valesio, che stava lavorando al suo libro sulla retorica del silenzio, presentò e commentò un documentario di circa un’ora su una cerimonia quacchera intitolata “Esplorazione silenziosa”.

Fedele a questa scommessa di parlare con il silenzio, mi pare sia più efficace seguire una scaletta che leggere un testo. Ricordo che lo stesso Valesio sosteneva che in questi ultimi quindici o venti anni la discussione sul silenzio è stata più rumorosa di quanto ci si aspettasse. Quindi spero che non ci si scandalizzi del ‘silenzioso’ che parla del problema del rapporto tra il silenzio e il parlare del silenzio. Uno dei più grandi piaceri della vita, riservata purtroppo a pochissimi, è quello di ‘inventare’ le parole, al contrario di quello che è il massimo del potere, cioè quello di ‘cancellare’ le parole. È nota la storia dell’imperatore cinese che ogni mattina, quando si svegliava, cancellava una parola dal dizionario e poi spediva i suoi soldati per tutto l’Impero a uccidere quelli che usavano la parola proibita: questo è il massimo potere possibile.

I

Occorrerebbe, l’analisi più elementare lo esigerebbe, una definizione del silenzio e del suo campo semantico. La suggerisco a partire dal dizionario – oggetto straordinario, vertiginoso (Barthes), dove ogni parola rimanda ad un’altra in una specie di circolo infinito -, perché permette un’analisi componenziale e narrativa (dietro ogni definizione c’è una sorta di racconto, il dizionario stesso può essere letto come un’avvincente matrice narrativa).

Le definizioni del silenzio del dizionario sono le seguenti: “condizione ambientale definita dall’assenza di perturbazioni sonore” (per questo si parla di ‘zone’ del silenzio, come di ‘zone d’ombra’), e “astensione dal parlare o cessazione del parlare”. Seguono una serie di significati o accezioni figurate e tecniche: silenzio profondo, perfetto, glaciale; silenzio di tomba, del chiostro, silenzio della notte, della campagna, dei boschi…

Se si esamina questo piccolo repertorio lessicale si troverà che il silenzio ha uno spazio e un tempo propri. Si parla di condizione ambientale, di luoghi, e poi si parla anche di tempo caratterizzato dalla mancata comunicazione di parola.

C’è dunque un’‘aspettualità’ del silenzio: ci sono silenzi durativi (‘il silenzio della natura’) ma anche silenzi puntuali (nel momento in cui interrompo il mio allocutore compio un’azione puntuale, ho interrotto un’azione, e poi sono libero di riprendere a parlare o meno).

Accanto alle definizioni denotative si può interrogare anche un altro livello del discorso, costituito dai proverbi, modi di dire, motti, dedicati a questa nozione: ad esempio, il ben noto proverbio: “Il silenzio è d’oro”, di origine contadina, che rinvia al mito del tesoro nascosto; il motto di Amleto diventato proverbio: “Il resto è silenzio”, dove apparentemente la comunicazione viene opposta al silenzio in quanto dis-valore (oppure dove, all’opposto, si sottolinea l’inutilità della parola). Ricordo anche un proverbio dell’Ecclesiaste, di cui è facile, per la sua struttura riconoscere l’origine: “C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere”. E così via.

Leggendo il dizionario si impara anche che il termine ‘silenziario’ non è solo un aggettivo, ma un sostantivo che designa l’ufficiale romano che imponeva il silenzio nell’assemblea. C’è sempre qualcuno che impone il silenzio. Così a Bisanzio, dove l’usciere aveva la funzione non solo di imporlo, ma anche di regolarlo.

Esiste quindi una duplice dimensione del silenzio: generale (dei rumori, della natura, degli animali) e specifica: il silenzio dell’uomo. E anche un doppio soggetto del silenzio, non solo colui che ‘sta’ in silenzio, ma anche colui che ‘fa’ il silenzio. Il silenzio è una vera e propria azione, un atto linguistico e discorsivo.

C’è poi il ‘racconto’ dell’interazione, del modo in cui, nella parola scambiata, tra un intervento e l’altro, si scambiano parole e si scambiano silenzi, pause, sospensioni aree di transizione: il silenzio di chi parla dà all’interlocutore la possibilità di intervenire. Molte conversazioni si arrestano su una pausa più o meno lunga a seconda del grado di cooperazione; pausa che è dunque fondamentale per consentire i turni conversazionali. Nella dinamica conversazionale non si scambiano solo frasi ma anche silenzi: il lapsus ad esempio è una forma di silenzio, una parola sfuggita al silenzio.

Oggetto della mia curiosità è tra l’altro il mito di fondazione, di origine, del silenzio. Nelle mitologie antiche dietro ogni attività umana c’è un racconto di fondazione, un mito di origine. Quello del silenzio fa pensare alla teoria del ‘Big-bang’, l’esplosione da cui nasce la vita e che rompe un silenzio profondo, il silenzio della non-vita. È il modo in cui molti mistici hanno concepito il silenzio di Dio. Il silenzio di Dio ha diverse accezioni. Si è parlato di silenzio di Dio nel senso che Dio è concepito come silenzio, Dio è silenzio. Meister Eckhart afferma che la divinità è un “silenzioso deserto”, più misterioso del silenzio stesso.

Del resto c’è anche un silenzio edenico. Si suppone che nel paradiso terrestre, prima dell’invenzione della parola, ci fosse un grande silenzio. Qualcuno ha osservato che nella Creazione di Michelangelo Dio crea il mondo con un gesto ma anche in un silenzio perfetto. Il silenzio precede quello che Dante chiamava il primiloquium, la ‘prima parola’. Nel De vulgari eloquantia Dante fa la storia dell’origine del linguaggio prima di giungere alla lingua volgare e dice che all’origine c’è il silenzio, rotto dal primiloquium. Dante discute se il primo a parlare sia stato Adamo o Eva e poi decide per Adamo, la cui prima parola è: “El”, che è il nome ebraico di Dio.

In quella sillaba, la prima parola del mondo, c’è tutta la magia, lo stupore, l’emozione di ciò che si manifesta: c’è dunque una origine del linguaggio che non informa, né definisce, ma descrive, esprime lo stupore della passione, della sorpresa.

II

Detto questo, per tentare di definire il silenzio ci si deve chiedere di che tipo di silenzio parliamo. C’è una poesia di E. Lee Masters, l’autore dell’Antologia di Spoon River, che fornisce un prezioso elenco di silenzi possibili.

C’è il silenzio di un grande odio e il silenzio di un grande amore. Il silenzio di una profonda pace dell’anima e il silenzio di un’amicizia vera, di una crisi spirituale attraverso cui l’anima sottilmente tormentata giunge con visioni ineffabili a una vita più alta; e il silenzio degli dei, che si capiscono senza parlare, e quello degli angeli, perché anche gli angeli parlano senza linguaggio. C’è il silenzio della sconfitta, c’è il silenzio di coloro che sono ingiustamente puniti e il silenzio del morente la cui mano stringe subitamente la vostra. C’è il silenzio tra padre e figlio, quando il padre non sa spiegare la sua vita sebbene in tal modo non trovi giustizia. C’è il silenzio che interviene tra marito e moglie e c’è il silenzio dei falliti. E il vasto silenzio che copre le nazioni disfatte e il silenzio del discorso storico, della storia che tenta di far parlare questo silenzio. C’è poi il silenzio di Lincoln e di Napoleone dopo Waterloo, il silenzio di Giovanna D’Arco che dice fra le fiamme il suo sgomento rivelando in due parole ogni dolore e ogni speranza. Il silenzio dei vecchi, troppo carichi di saggezza perché la lingua possa esprimerla in parole intelligibili a coloro che non hanno vissuto la grande parabola della vita. E c’è il silenzio dei m orti: se noi che siamo vivi non sappiamo parlare di profonde esperienze, perché vi stupite che i morti non vi parlino della morte? Il loro silenzio avrà spiegazione quando li avremo raggiunti.

Avrete notato la grande varietà del silenzio. E a partire da questa, mi sembra che finora gli studi sul silenzio non abbiano abbastanza rilevato che il silenzio è patemico, nutre una passione, è fondato su una passione: non solo, produce passione. C’è una ‘patemizzazione’ del silenzio che meriterebbe di essere formalizzata in una teoria all’interno di una ‘semiotica delle passioni narrative’, delle passioni raccontate: facciamo l’analisi dell’Avaro, del Geloso, dell’Indifferente; ebbene, credo che tale teoria debba essere integrata con quella delle “passioni del silenzio”. Il silenzio è un ‘luogo’ narrativo. Si pensi al ‘taciturno’: al silenzio di Cordelia, analizzato da Valesio, al silenzio di Bartleby, lo scrivano di Melville; al silenzio di Don Aureliano di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Marquez, e a quello di tanti altri personaggi.

Questo ‘ruolo’, questo ‘tipo’ narrativo non solo è molto frequente ma ha uno spessore passionale, propone delle passioni e scatena delle passioni.

III

Abbiamo evocato l’elenco dei silenzi nei testi di Masters, il problema è ora quello della loro classificazione. Ci sono molte varietà, tipi, forme di silenzio, è dunque possibile una tassonomia del silenzio?

Il silenzio è un po’ come la voce: è un oggetto complesso, un linguaggio, una grammatica. Ricordiamo, a questo proposito, che Malraux ha legato insieme i due termini nel titolo del suo libro sulla pittura: Le voci del silenzio.

C’è un silenzio, quello specifico, intersoggettivo, che un tempo chiamavano ‘eloquente’, e poi ‘comunicativo’ e che Parret ha proposto di chiamare ‘congiuntivo’ perché è un silenzio che non parla mai da solo, parla insieme alla voce; e ce ne sono altri. Una classificazione è allora possibile, e accennerò qui alle proposte più recenti, a quelle che distinguono almeno due tipi di silenzio. Due, più un terzo facoltativo. I primi due tipi sono: il silenzio disgiuntivo e, per l’appunto, il silenzio congiuntivo.

È vero, qualcuno potrebbe obiettare, che è difficile che il silenzio sia disgiunto completamente dal linguaggio, oppure dalla sonorità, e che anche il silenzio del deserto è punteggiato da qualche rumore o suono.

Ricordo a questo proposito una bella frase di John Cage, il teorico moderno della musica ‘silenziosa’ (in Oriente esisteva una pratica antica di concerti ‘silenziosi’ in cui si fingeva di suonare, concerti cioè fondati sul silenzio). È Cage in un suo libro ad aver sollevato per primo il problema del silenzio nella musica, ed aver composto dei pezzi ‘silenziosi’. Diceva tuttavia: “Il silenzio in realtà non esiste. Accade sempre qualcosa che facilmente provoca il rumore o il suono.” Il fatto è che il silenzio si definisce proprio in questa relazione con il suono, il rumore, e soprattutto la voce, la parola.

Il secondo tipo di silenzio, il silenzio congiuntivo, è quello dentro le parole, dentro il discorso. Lo è almeno a tre livelli. Per quanto riguarda il primo, penso al libro di Ducrot, intitolato Dire e non dire, perché il dire implica anche il non-dire, il discorso è fatto di parole e di silenzi, di cose che non si dicono, di impliciti e di presupposizioni.

Il secondo livello è quello retorico. C’è una retorica intesa come organizzazione del discorso che tenta di attenuare il discorso, in un certo senso di farlo tacere: figure come la ‘reticenza’ o la ‘preterizione’ tendono ad affievolire la comunicazione, a ridurla al minimo discorsivo.

C’è un terzo livello, quello del dialogo o della conversazione, che sostanzialmente è organizzato giocando sul rapporto fra parole e silenzio. Pause, sospensioni, turni di parola: un ‘gioco’ fra ascolto, parola e silenzio.

Il quarto livello concerne la parola poetica. La parola poetica ha una proprietà particolare, esclusiva: mentre negli altri casi le parole parlano del silenzio, la parola poetica tenta di dare voce al silenzio, di farlo parlare. Poiché la parola poetica è al limite del silenzio, è legata al silenzio, al silenzio delle origini, il silenzio poetico è il livello più alto. Non si tratta più di usare il silenzio nella conversazione per far funzionare il dialogo, si tratta di esporre, far parlare il silenzio, far parlare la voce stessa del silenzio.

Questa è una proposta di classificazione.

Ho intitolato questa conversazione “figure del silenzio” al plurale: figure nel senso retorico, figure discorsive e narrative. Il silenzio funziona in modo diverso a seconda dei generi letterari, dei tipi di discorso, delle figure o configurazioni narrative. Funziona in modo diverso nella parola mistica, spirituale, e nella parola scambiata, non solo perché il discorso del mistico è un discorso monologico, e la parola scambiata è parola dialogica, ma perché il discorso mistico ha la funzione di produrre una sorta di vuoto che non è un vuoto passivo, ma attivo, nel senso che esso crea lo spazio in cui far parlare l’altro, far parlare Dio.

Così per il silenzio del segreto o della censura. C’è una bella frase nella Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato, in cui si dice che gli allievi di Pitagora avevano mantenuto il segreto sulle sue rivelazioni (come con una divinità) e che Pitagora aveva insegnato loro che il tacere è un discorso, il tacere è discorso.

Qui mi viene in mente un aforisma di Canetti a proposito della lingua, che dice: “Ogni lingua ha il suo proprio tacere”. Ogni lingua prevede al suo interno un silenzio particolare che è diverso da lingua a lingua. Un buon tema per la linguistica testuale: definire i diversi silenzi, i diversi modi di organizzare il silenzio.

Aggiungo che questo tema è molto antico e attraversa tutta la cultura occidentale; e che ha dato luogo a un genere saggistico, quello dell’Elogio del silenzio. Penso al testo Descrizione del silenzio di un umanista, Celio Calcagnini, del quale si ricorda tra l’altro un detto: “Barbarorum est conclamatio, Graecorum est silentium”. Anche l’abbate Dinouart ha scritto un’Arte del tacere, e una Eloquenza del corpo in cui distingue nell’uomo due linguaggi: il linguaggio delle parole, che include il silenzio, e quello del corpo, il solo linguaggio silenzioso.

L’uomo comunica con il viso, il corpo, i gesti, e questo è il linguaggio più silenzioso. Il corpo è capace di una sua eloquenza, di un suo linguaggio, ma il linguaggio del corpo resta rigorosamente silenzioso.

Si ricordi anche la tradizione derivata da Erasmo e quella conventuale dove, come nelle regole di San Benedetto, era uso organizzare lo spazio del convento dividendolo in luoghi di parola e luoghi di silenzio.

E come ci sono regole per l’uso dello spazio, c’è anche una lunga tradizione degli usi sociali, culturali del silenzio.

Un antropologo americano, studiando il silenzio tra i Navajo, gli indiani d’America famosi per la loro discrezione, ha scoperto che essi giudicavano aggressivi e da evitare gli Yankees, quei bianchi che non osservavano scrupolosamente le regole conversazionali, che parlavano ad alta voce anche quando non avevano nulla da dire. Le culture si osservano fra loro e molto spesso i conflitti culturali nascono a partire dalla inosservanza di tali ‘regole’.

Altrettanto importanti sono le regole del corpo e del linguaggio del corpo interattivo. Si veda la famosa inchiesta dell’antropologo Edmund Hall su popolazioni diverse, da Philadelphia a Brooklin, fino al Cairo. Hall osservava come progressivamente il modo di conversare del corpo cambiava. Gli anglo-americani di Philadelphia conversano a una distanza abbastanza netta, senza guardarsi in faccia. Guardarsi in faccia è per gli anglosassoni un gesto di aggressione. Perciò parlano guardando al di sopra della testa e senza gesticolare. A Brooklin poi, con gli Italoamericani, la distanza si riduceva: il parlante guarda l’interlocutore diritto negli occhi, aiutandosi con i gesti. Al Cairo, infine, camminando in una delle vie principali, l’arabo gentile con cui aveva attaccato discorso tendeva a ridurre al minimo le distanze, parlava soffiandogli sul viso, non solo gesticolando, ma manipolando fino a farlo indietreggiare e a spingerlo con le spalle al muro. Tanto che l’antropologo concludeva sulla opportunità che i popoli imparino le reciproche regole prossemiche per evitare equivoci e conflitti.

Per tornare alle accezioni differenti di figura, figure sono anche i personaggi del silenzio. Il ‘silenzioso’ è un ruolo narrativo molto particolare, e sarebbe interessante riunire intorno ad esso una piccola silloge narrativa. Avevo pensato, per cominciare, a Kafka, al racconto sul silenzio delle sirene. Poi ho letto in un libro di Steiner su linguaggio e silenzio che anche i bambini ormai sanno che ciò che è più terribile nelle sirene non è il loro canto, ma il loro silenzio.

Avrei voluto leggervi il racconto di Melville, il cui protagonista, Bartleby, è, in questo senso, esemplare perché, silenzioso ad oltranza, alla fine gli viene diagnosticata una vera e propria ‘psicosi’ del silenzio. Si può sopportare un silenzio limitato, già codificato, ma non si sopportano silenzi ingiustificati.

Dicevo, i silenzi codificati. Esiste infatti un codice del silenzio. Quindi una rottura di tale codice. Alcuni di voi avranno visto uno degli ultimi spettacoli del Living Theatre in cui si entra a teatro e si vedono – prima infrazione – tutti gli attori seduti sul proscenio in silenzio, che tutt’al più fingono di tossire o di starnutire. Il pubblico entra, guarda, ascolta: passano dieci, venti minuti, dopo mezz’ora metà del teatro è uscita e l’altra metà, quella rimasta, viene premiata con la presentazione dello spettacolo. C’è dunque un codice del silenzio sulla scena. Ci sono silenzi già codificati e silenzi non codificati che finiscono non solo per disturbare ma per angosciare. Freud li definiva ‘perturbanti’ perché anche il silenzio, come la solitudine e l’oscurità, può provocare una sensazione di angoscioso estraneamento. Egli pensava infatti che le angosce infantili si prolunghino, non cessino né svaniscano. In realtà ciò che disturba è l’infrazione alle regole, alle regole di genere. Il silenzio, ripeto, è tollerabile, può essere gradevole o sgradevole, ma è tollerabile nel limite del codice. Dunque il silenzio ha anche questa funzione angosciante. Non è un caso che l’Apocalisse di Giovanni finisca quando l’angelo ha aperto il settimo sigillo: “Ci fu un silenzio e durò per molto tempo”.

Quanto all’intensità e ai gradi di intensità del silenzio, c’è una trattatistica che parla dei sette gradi dell’orazione silenziosa e dei dodici gradi del silenzio secondo una mistica italiana del Medio Evo, Sant’Antonia di Gesù. Il silenzio come ‘geologia’ è, tra l’altro, una definizione di Bachelard. Quanto all’intensità, essa è collegata alla forza delle passioni prodotte dai diversi silenzi.

C’è infine il problema della temporalità del silenzio. Il silenzio non ha una temporalità lineare come il discorso. Nella conversazione il silenzio che interrompe la parola introduce una nuova temporalità che quindi costruisce una sorta di dialettica. Questa nuova temporalità obbliga l’interlocutore a mobilitare le facoltà sensoriali: la vista, non solo l’udito, il che produce una serie di temporalità distinte dentro la temporalità dell’ascolto. Nella conversazione chi è concentrato sull’ascolto è obbligato a puntare sulle pause, sulla qualità delle pause, sulle sospensioni, per ottenere una temporalità.

Esistono dunque diversi tipi di silenzio: il silenzio mistico, il silenzio della conversazione diplomatica, il silenzio iniziatico, il silenzio della censura, il silenzio della rimozione. Nell’analisi c’è il silenzio dell’analista e del paziente analizzato che si incrocia con la memoria del corpo e che fa i conti con la rimozione. C’è il silenzio diplomatico e della censura politica, e quello della repressione. Ricordo un libro, molto bello, che parla del silenzio dei desaparecidos argentini e che è uscito con il titolo, per l’appunto, Desde el silencio (Dal silenzio).

IV

Per concludere, ho pensato a un racconto tibetano, un “kôan”. Esistono molte pratiche o sette religiose che non solo usano il silenzio ma che lo teorizzano e lo concepiscono come linguaggio fondamentale.

Il “kôan” è un enigma dello Zen, un enigma apparentemente assurdo ma è insieme uno strumento pedagogico. È un enigma, cioè, che il maestro assegna all’allievo affinché ne trovi la soluzione. Il maestro chiede all’allievo: “qual è il suono, il battito di una mano sola? Due mani fanno un battito, ma una mano sola?” Toio, l’allievo del maestro Zen, cui viene assegnato il compito di trovare la soluzione, si chiude nella propria camera e mentre medita, sente una musica che le geishe fanno nella stanza accanto. Pensa di aver trovato la soluzione, corre dal maestro e gli propone la chiave dell’enigma nelle arie che ha sentito cantare. Il maestro gli risponde che quella non è una risposta: Toio ne deduce che la chiave non è la canzone delle geishe e che bisogna cercare altrove. Esce dalla propria stanza, prende un sentiero che si immette in un bosco, sente il brusio di un ruscello nell’erba. L’indomani torna dal maestro e gli propone la nuova chiave. Il maestro nuovamente lo respinge. Toio continua a cercare, immaginando questa chiave, tra l’altro, nel rumore delle foglie mosse dal vento. Il maestro non accetta nessuna delle sue proposte e lo rinvia alla sua ricerca. A questo punto il discepolo è cresciuto, ha guadagnato in maturità, è già entrato in meditazione silenziosa tra i monaci e tace del problema del “kôan”. Tace di questo suo compito di trovare la chiave dell’enigma. Ed è allora che sente il “rumore di una sola mano”.

In: L’opera del silenzio, a cura di Daniela De Agostini e Pietro Montani (“Peregre”. Collana di studi e ricerche della Facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Università di Urbino), 1999, pp. 9-19. Per gentile concessione della Facoltà di Lingue e letterature straniere.