“Il Gattopardo”, un no global romantico e annoiato
Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrisse Il Gattopardo in pochi mesi, di getto, dopo lunghissime riflessioni ed esitazioni, fra il 1955 e il 1956. Dalla sua composizione è dunque passato mezzo secolo. L’autore morì nel 1957, a sessantuno anni. Il romanzo uscì da Feltrinelli l’anno successivo, con una prefazione di Giorgio Bassani, che lo aveva scoperto dopo un doppio rifiuto sia di Mondadori che di Einaudi, rifiuto nel quale era coinvolto, con diverse motivazioni e in modo più o meno diretto, Elio Vittorini. Il romanzo, come si sa, fu un successo e resta, prima dell’avvento di Umberto Eco, che merita tutt’altre valutazioni, il maggiore e più longevo best seller italiano del Novecento. Piacque molto a Montale e a Geno Pampaloni. La sinistra marxista e gli scrittori sperimentali e in senso lato d’avanguardia non lo apprezzarono affatto, in quanto conservatore (se non reazionario) sia ideologicamente che letterariamente. Esemplare e memorabile, in proposito, la stroncatura che scrisse Franco Fortini*, nella quale si dice che Il Gattopardo “dà l’impressione, anche a chi crede di non intendersene, dell’opera d’arte. Ed è, o sembra, di destra. Fa l’elogio del sempre uguale. È una Sicilia senza astratti furori, e senza sindacalisti. Ma, soprattutto, dà l’impressione del già letto, del già pensato, del già saputo” (Contro ‘Il Gattopardo, 1959, in Saggi italiani I, Garzanti 1987).
In queste osservazioni c’è qualcosa di vero e qualcosa di falso. Ma è il tono che decide tutto. E il tono è quello dell’antipatia, del sospetto politico, della condanna. Come nelle migliori stroncature, quelle più tempestive e contingenti, cioè militanti, l’autore e il libro sembrano colpevoli delle ragioni equivoche del loro successo: la stroncatura di Fortini, comunque, è più diretta contro il pubblico che applaude per ragioni sospette, che contro la bravura dell’artista applaudito. Le conclusioni di Fortini erano queste: “l’Italia culturale che fra poco si chiederà ‘Gramsci, chi era costui?’ e che già trova nel marxismo una vecchia favola, insomma l’Italia alla Elémire Zolla, che si angoscia orficamente sulla cultura di massa (…) tutta questa Italia ha creduto dapprima di rispecchiarsi nel Pasticciaccio di Gadda, ha sobbalzato di gioia e di rimorso leggendo Il dottor Zivago, ma si è riconosciuta solo nel Gattopardo(…) quel che preoccupa è il significato di politica culturale che il successo ha conferito a questo libro”.
Oggi sembrerebbe che il romanzo di Lampedusa possa essere letto con maggiore distacco. Eppure si tratta di un libro la cui lettura è tutt’altro che indolore. Intanto perché quello che Fortini chiamava “l’elogio del sempre uguale” era tutt’altro che un elogio, era una semplice e molto amara constatazione. In Italia (non solo in Sicilia!) e in quasi tutti i paesi del mondo, la trasformazione rapida convive con un fondo di immobilità, con una resistenza oscura e spesso non dichiarata contro le novità e i mutamenti. In moltissime società e culture, la modernizzazione si presenta, nello stesso tempo, come un fatto e come una recita. Spesso l’estetica del nuovo arriva prima della politica e dell’economia del nuovo. Non solo nella Sicilia e nell’Italia del 1860, le società cambiano anche per restare se stesse. Ci si adegua per non essere travolti. Questo è un discorso da sociologia della modernizzazione, i cui oggetti privilegiati sono ovviamente paesi come il Giappone, la Cina, l’India, il Messico, il Brasile. Ma torniamo al Gattopardo. Don Fabrizio principe di Salina, incarnazione del “Gattopardo” che domina lo stemma gentilizio della casata, è il protagonista che a sua volta domina il romanzo di Giuseppe Tomasi, principe di Lampedusa. Autore e personaggio si rispecchiano l’uno nell’altro a un secolo di distanza: come se il personaggio avesse delegato all’autore il compito di tramandare la memoria dei due decenni cruciali della sua vita, 1860-1862, nonché la memoria della sua morte, avvenuta nel 1883. E come se l’autore volesse dirci che per lui la Storia con la maiuscola era già finita da un secolo: nel momento in cui, con l’unità d’Italia, con la fine del regno borbonico delle Due Sicilie, con l’arrivo dei garibaldini e con l’ascesa economica e la presa del potere in Italia della borghesia liberale e nazionale, il declino della nobiltà aveva segnato la fine di un mondo secolare e di una cultura: quella a cui i due principi, autore e personaggio, appartenevano.
Quando nasce l’Italia unita, muore dunque la nobiltà, in senso sociale e in senso etico ed estetico. Secondo il principe Tomasi di Lampedusa era naturale che questa classe morisse. Ma era altrettanto ovvio che insieme ad essa morisse ciò che di meglio questa classe aveva saputo produrre nel corso dei secoli. Il romanzo è perciò una malinconica elegia, scritta quando, con la fine davvero poco nobile del Regno dei Savoia, con l’avvento della Repubblica, la nobiltà in Italia muore inutilmente per la seconda volta, essendo già morta da tempo, mentre la borghesia, quella nuova degli anni Cinquanta, certo non meno intraprendente di quella ottocentesca, continua ad ascendere e a incrementare la propria ricchezza e il proprio potere.
È stato subito notato che nel Gattopardo, romanzo storico nato perfetto e tardivo come un frutto letterario e ideologico fuori stagione, la Storia si condensa nei monologhi ironici e sconsolati, nel punto di vista di un protagonista assolutamente centrale: principe, dunque, anche all’interno dello spazio letterario del libro. Fisicamente enorme e abnorme, il principe, incarna un principio fondamentale e fondante della forma letteraria Romanzo: perché senza l’invenzione di personaggi-guida, di protagonisti accentranti, sembra proprio che un genere letterario come il romanzo, da Don Chisciotte a Il rosso e il nero a Madame Bovary a Delitto e castigo, non sarebbe esistito. E questo è perfino più vero nel Gattopardo, romanzo che celebra anche, fuori tempo massimo, un nobile genere letterario come il romanzo classico, ormai in declino e secondo le avanguardie europee già defunto a metà Novecento. Un’opera più lirica e saggistica che propriamente narrativa come Il Gattopardo(come osservò Bassani) aveva perciò bisogno di un personaggio particolarmente forte e suggestivo per compensare le sue lacune e i suoi squilibri interni e per magnetizzare le meditazioni dell’autore dando loro carattere narrativo e spessore storico.
Il Principe di Salina (lo si vede fin dalle prime pagine) è un personaggio costantemente “fuori misura”. Suscita rispetto, timore, diffidenza. Anche fra i nobili siciliani non è di casa. Non è a suo agio. E gli altri non sono a loro agio con lui. Questo è particolarmente evidente nella scena forse più famosa e apprezzata del libro, la scena del ballo, che occupa l’intero sesto capitolo. È l’ultimo momento vitale e sociale del principe, anche se caratterizzato da malumori, malinconie, premonizioni, nostalgie: che hanno cominciato a comparire nel romanzo fin dall’inizio e che qui si intensificano e si affollano raggiungendo il loro culmine. Il capitolo successivo è quello intitolato “La morte del Principe”, con un salto di ben due decenni dei quali non viene raccontato nulla. Nel ballo (che Visconti nel suo film ha privilegiato) don Fabrizio è immerso in una socialità che lo annoia e lo disturba, una socialità festosa nella quale si celebra la nuova realtà storica: Garibaldi è stato fermato in Aspromonte e il colonnello Pallavicino che lo ha ferito e ha sventato le ultime minacce democratiche, viene festeggiato dalle dame della nobiltà siciliana. La vita, in quel palazzo nobiliare, sembra continuare esattamente come prima, ma ostentando qualche fondamentale cambiamento assolutamente necessario a garantire delle altrettanto fondamentali continuità. Che tutto, in certi momenti, debba cambiare affinché tutto possa, in realtà, restare come prima è, come sappiamo, il motto che sintetizza il passaggio d’epoca e infine la malinconia del libro.
In quel ballo si celebra la nuova coppia, l’unione più tipica e vantaggiosa di un presente che guarda al futuro: il matrimonio di Tancredi Falconeri, nipote prediletto del principe di Salina, con Angelica Sedàra. La bellezza, l’eros, l’ambizione, il calcolo cementano l’alleanza fra un’aristocrazia senza mezzi economici e una borghesia attivissima, accortissima, dotata al massimo grado di virtù eminentemente pratiche, per la quale il lavoro, il denaro, l’ascesa, il potere e la promozione sociale sono tutto.
Il romanzo di Lampedusa è costruito come una sintesi ideologica e letteraria a posteriori. Viene dopo la fine: e in esso risuona un intero passato. Credo che sia diventato un best seller anche (se non soprattutto) per queste sue qualità sintetiche. Come ho detto, è un romanzo che celebra stilisticamente, come per l’ultima volta, l’arte classica del romanzo,nel momento in cui quest’arte era stata, nei primi decenni del Novecento, già demolita o radicalmente modificata. Il Gattopardo esibisce una specie di “realismo recitato”, un finto tradizionalismo narrativo di stampo ottocentesco. Ma nello stesso tempo nasconde, per una riluttanza aristocratica ad accettare le rivoluzioni estetiche novecentesche, una vocazione antinaturalistica alla sintesi poetica. Più che narrazione dinamica dal vivo, abbiamo evocazione, rievocazione, rimemorazione, riflessione, analisi saggistica. Come anche in Elsa Morante, in Lampedusa il più raffinato livello della “prosa d’arte” è applicato all’arte narrativa. Così la prosa d’arte si anima narrativamente, si mette al servizio della tipica mossa iniziale del genere romanzesco: l’entrata in scena del personaggio accentratore. Mentre d’altra parte la narrazione perde velocità, il ritmo rallenta fino a bloccarsi in quadri e scene a sé stanti.
Si tratta esattamente di scenografie e di costumi, di scene di conversazione o di monologo. Il principe è l’anima strutturale, intellettuale e tonale del libro. È di lui e della sua vita che si parla, nel momento di un declino che è personale e storico. E il racconto è quasi sempre in forma di “discorso indiretto”, come se fra il narratore e il personaggio ci fosse in partenza un’identificazione quasi perfetta e una perfetta sintonia morale. Il mondo dell’uno si proietta nel mondo dell’altro. E questi due mondi sono entrambi, alla fine, travolti da una dinamica storica che non riesce a coinvolgere né lo scrittore né il suo alter ego romanzesco.
L’aristocrazia, quella “vera”, non è ammalata di Storia e di storicismo, di evoluzione e di filosofia del progresso. È piuttosto ammalata di anti-Storia, di ritualità, di formalismo, di culto degli archetipi e dei prototipi, di tutto ciò che non muta e non è accessibile al mutamento. È ammalata di mitologia. La filosofia aristocratica è una filosofia delle forme eccellenti, delle forme a priori che precedono l’esistenza e la determinano prima che si attui e venga vissuta. La “trascendentalità” del principe rispetto al suo ambiente e alla storia politica si fonda su un sistema stilistico che ha (o si presume che abbia) già raggiunto la perfezione e che quindi non può prevedere altro che la ripetizione. È un sistema di buone maniere inespugnabili, di distacco, imperturbabilità, scetticismo: ed ha i suoi correlativi oggettivati nelle costellazioni, nelle sfere celesti che il principe studia come astronomo, nelle quadrerie, negli arredi, nelle abitudini ( si ricordi che il conte Lev Nikolaevic Tolstoj, benché tutt’altro che imperturbabile e scettico, si rivela aristocratico quando in Guerra e pace, per stigmatizzare la pericolosità demoniaca, la tirannia borghese, rivoluzionaria e nichilista di Napoleone, lo definisce “uomo senza abitudini”, cioè puro mutamento, dèmone della novità e del dinamismo senza principi ereditati e senza nessun riconoscimento di istanze superiori e di tradizioni).
Ecco tutto ciò che nel romanzo e nel suo protagonista si oppone alla Storia e la contesta: le pareti e i soffitti dipinti, le favole e le figure mitologiche che abitano i palazzi, l’osservatorio astronomico del principe di Salina, i calcoli matematici a cui si dedica, la qualità del cibo e dell’abbigliamento, le forme del comportamento e del linguaggio, la cura del corpo e infine l’alleanza fra mitologia e astronomia, favole antiche e scienza della natura, presidio di una classe che aveva vissuto se stessa come perenne.
Alla Storia e al mutamento non vengono riconosciuti né autorità né valore, anche se alla fine si è costretti a subirne la forza. Ma di fronte alla fine del regno borbonico, all’arrivo di Garibaldi in Sicilia, al plebiscito di annessione all’Italia di Cavour e di Vittorio Emanuele, il principe protagonista accetterà tutto come “fatto compiuto” e non come “valore riconosciuto”. Solo quando i fatti sono avvenuti possono essere aristocraticamente accettati in quanto necessità di quella “seconda natura” che ormai è diventata la Storia.
La differenza e il legame fra la generazione di don Fabrizio di Salina e il suo amatissimo nipote Tancredi Falconeri è tutta qui. Il giovane Tancredi partecipa e si inserisce: accetta attivamente il mutamento, la fine di un mondo e la nascita di un altro. L’anziano principe è invece troppo orgoglioso, onesto e in là con gli anni per non sentire l’impostura, l’indecenza di una partecipazione attiva e ufficiale alla vita pubblica del nuovo regno. Questa renitenza del principe produce uno dei dialoghi più importanti del libro, quello sull’antropologia dei siciliani e sulla loro ambigua, malcelata “aristocraticità” di sconfitti… Ma con qualche aggiustamento il discorso potrebbe essere facilmente esteso al “carattere degli italiani” e forse al mondo ispanico, anche americano, o ad altre culture rimaste troppo a lungo premoderne. Il principe parla di questo nel suo colloquio con il cavaliere piemontese Aimone Chevalley di Monterzuolo, a conclusione di un eccezionale capitolo, il quarto, proprio al centro del libro, nel corso del quale si parla anche del fondamentale borghese liberale don Calogero Sedàra, padre di Angelica, e si leggono le pagine eroticamente più riuscite sugli amori di Tancredi e Angelica negli inesplorati recessi del palazzo di Donnafugata. È quindi uno dei capitoli più ricchi e vari. Nel quale l’incontro “impossibile” fra il principe intellettuale e il vivacissimo borghese arricchito, del tutto privo di gusto e di grazia, si realizza invece con il favore decisivo dell’attrazione erotica, benché oculata e lungimirante, dei due giovani, Tancredi e Angelica: l’amore e la giovinezza congiungono e conciliano due classi che sembravano inconciliabili.
Il principe approva quest’unione, ma subito dopo ritrova il suo distacco. Evita per dignità, per coerenza stilistica, si direbbe, prima che per onestà, di entrare ufficialmente nella nuova politica. Rifiuta cioè di diventare senatore a Torino. In lui la tradizione non può incontrare l’innovazione, l’aristocrazia non può convivere con la borghesia: questa convivenza il principe la delega a suo nipote Tancredi che conviverà con la bellissima borghese Angelica. A questo punto la reticenza del principe viene meno. Spiega al piemontese: “Avevo detto ‘adesione’, non avevo detto ‘partecipazione’. In questi ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere ad un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento. Adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene (…) In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori (…) Appartengo ad una generazione disgraziata, a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non ha potuto fare a meno di accorgersi, sono privo di illusioni: e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà di ingannare se stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? (…) Lei è un gentiluomo, Chevalley, lei ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: ‘i Siciliani vorranno migliorare’(…) i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria (…)”.
Durante il ballo, quando Sedàra gli si siede accanto, il principe si rende conto di un semplice fatto: che lo odia. Eppure ad un certo punto del suo colloquio con Chevalley gli aveva detto: c’è un nome che io vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedàra. Egli ha più meriti di me per sedervi”. Ma è troppo chiaro che il rapporto del principe di Salina con il liberale arricchito Sedàra è fatto anzitutto di disprezzo nobiliare allo stato puro. Un disprezzo non certo da aristocratico illuminato e riformatore. Il lettore del romanzo di Lampedusa non può non sentire che quel disprezzo, a distanza di un secolo dagli eventi narrati nel libro, si è certamente nutrito della critica estetica e morale alla borghesia formulata da grandi scrittori, intellettuali e artisti: dai critici del Progresso borghese, come Leopardi, Baudelaire o Flaubert, o perfino da populisti così diversi come Dostoevskij e Aleksandr Herzen. La forza di suggestione del romanzo di Lampedusa deriva almeno in parte dal fatto che la critica rivolta contro la borghesia liberal-progressista, contro il tipo dello scalatore sociale, dell’arricchito e del parvenu è stata formulata, nel frattempo e nel corso di un secolo e più, sia da destra che da sinistra: e in molti punti queste critiche coincidono. L’anticapitalismo romantico, estetico, moralistico che ha coinvolto Kierkegaard, Dickens, Ruskin, Tolstoj, Nietzsche e tanti altri, viene ormai presupposto dall’aristocratico Tomasi di Lampedusa. E così il suo principe ci viene incontro non solo come un libertino scettico e un sensuale moralista e astronomo, ma anche come un esteta che disprezza l’incipiente società di massa e che deplora la demolizione delle singolarità individuali fondate sulla proprietà terriera. Lampedusa gioca cioè a sovrapporre nel suo personaggio Voltaire e l’antivolterriano Baudelaire, il razionalismo libertino, l’accidia nichilista, la nausea per la volgarità, praticità e duttilità borghese. Cose che possono far pensare anche a quel grande rappresentante sobrio del demonismo amletico e romantico che è il principe Andrej Bolkonskij in Guerra e pace: un Andrej ormai vecchio, diventato piuttosto simile a quell’illuminista collerico di suo padre. Ovviamente Lampedusa lavora manieristicamente sulla tradizione del romanzo. La echeggia di continuo. Lavora sul piano delle stilizzazioni e delle tematiche, soprattutto, come un poeta che nel Novecento riprenda o restauri l’endecasillabo e le sequenze strofiche per raccontare ed evocare l’Ottocento. In questo può far pensare a un Gozzano non borghese ma aristocratico (somiglianza notata negativamente da Fortini). A Gozzano (e a Flaubert) lo accomuna anche la staticità scenografica e descrittiva, la preponderanza delle cose sulle persone e anche l’oggettivazione e la staticità dei molti personaggi minori, immobilizzati nel loro carattere-destino, figure incastonate in uno sfondo che prevede una limitatissima mobilità sociale.
L’etica e l’ideologia del libro sono (ironicamente e melanconicamente) edonistiche e naturalistiche. Al di là delle leggi di natura, delle forme di vita tradizionali e del piacere, c’è ben poco: un senso di decadenza e di morte, un “delirio di immobilità” (come in Montale: che apprezzò molto il romanzo), non senza un’eco di leopardiano (ancora una volta aristocratico e antiprogressivo) materialismo di matrice classica, fra epicureismo e stoicismo.
Sia dal punto di vista dello stile e della tecnica narrativa (manieristica, neo-tradizionale o postmoderna), sia dal punto di vista tematico e culturale, Il Gattopardo è dunque un intarsio di echi e di criptocitazioni: la decadenza di una famiglia, il declino di un individuo, l’ascesa di una nuova classe sociale, il conflitto fra valori e interessi, lo slancio vitale delle nuove generazioni, il turbamento dell’ordine tradizionale, i pranzi, la caccia, l’eros, la magnificenza delle dimore nobiliari, il colore locale, il conflitto fra lunga durata e rapidi mutamenti, fra ciclicità eterne (mito e natura) e trasformazioni dell’economia, dei poteri, del costume. Come I Buddenbrook di Mann è stato l’ultima, perfetta e già manieristica incarnazione del romanzo dell’Ottocento all’inizio del Novecento, così si potrebbe dire che Il Gattopardo, in Italia, intorno alla metà del Novecento, quando il periodo degli esperimenti e delle rivoluzioni estetiche si è concluso, è la rievocazione nostalgica e sintetica di un mondo sociale e di una forma letteraria ridotti dalla Storia a “oggetti desueti”, amati perché desueti. Ma torniamo un momento a quella che passa per essere la bandiera ideologica del libro, l’idea sociale e politica proverbiale enunciata da Tancredi (il giovane) e variamente rimuginata dal principe (l’anziano), quando il primo sta entrando in scena, il secondo sa di doverne uscire: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Questo cosiddetto “gattopardismo” non è affatto l’ideologia positivamente abbracciata dal protagonista e neppure dall’autore. Anzitutto perché il rapporto fra colui che la enuncia, la fa propria e la mette in pratica, Tancredi, e il riflessivo, refrattario principe, è un rapporto ambivalente. Il principe approva in Tancredi e nella sua idea della vita politica la vitalità e la grazia di un giovane amato e ammirato. Ma da quella vitalità, da quella idea e duttilità mercuriale si sente escluso e lontano. Il suo destino, la sua natura di ultimo rappresentante immodificabile della casata nobile non gli permettono di vivere, ma solo di sopravvivere. Lui non può affatto trasformarsi e cambiare per rimanere come è. La conservazione biologica e di classe sono impossibili nell’ottica del principe. È il trasformismo l’anima della conservazione. Ma don Fabrizio principe di Salina vede bene che tutto decade e finisce inesorabilmente. La tentazione di conservare è per lui solo momentanea. È il senso della fine, invece, che domina i suoi pensieri dalla prima all’ultima pagina del romanzo.
“Il Foglio”, 18 marzo 2006