Un “faqir” assoluto che vedeva l’invisibile
Esiste tra gli Arabi un tipo – un modo d’essere umano – al quale danno il nome di faqir. La Spagna, che ebbe a mantenere con gli Arabi consuetudini dirette di vita più a lungo di qualsiasi popolo europeo, e ne ha ereditato più di altri usanze sociali e pieghe dello spirito e impulsi di carattere, forse ha in sé mantenuto, connaturato, un po’ di quello stupore e di quella reverenza che sempre, fra gli Arabi, produce l’apparizione d’un faqir.
E costui chi sarà mai? Non ho incontrato un popolo che credesse di più nella veggenza, nella veggenza dell’invisibile: il faqir gli ricorda dunque l’origine, la sorte, le vicende della sua storia; brevi glorie in lunghi periodi di miseria; ma soprattutto il faqir è per lui il segno vivente del sacro, uno che è libero perché è protetto da gesti e da parole strani, in comprensibili; di più: uno che è sorto a simbolo di libertà.
Don Chisciotte è un faqir assoluto, ridotto a una tale povertà che non gli restava più, nel senso materiale, nemmeno l’esistenza dei sensi, nemmeno più l’abito meno separabile dall’esistere; salito a una tale pazzia da lusingarsi di possedere quasi la facoltà divina di creare le cose, non volendo o non potendo più rappresentarne la forma se non a immagine dei suoi pensieri. (…)
Andava Cervantes più in là di Pascal che cercava nell’universo una bellezza a immagine dei propri pensieri. Cervantes, più pessimista di Pascal, siccome in tutto l’universo tali immagini non le avrebbe mai incontrate, aveva convinto Don Chisciotte a credere tali le prime che gli fosse parso d’eleggere tra gli oggetti che gli accadeva d’incontrare, oggetti che erano non come apparivano agli occhi di tutti, ma quali erano per lui solo, ossia quali li pensava.
Andava più in là dello stesso faqir, se il faqir gettava via la sua ragione per un oggetto bramato, per una brama divenuta fissazione, mania, pazzia. Don Chisciotte non perdeva il suo giudizio per un oggetto: il suo pensiero non aveva altro oggetto che non fosse se stesso. Don Chisciotte ammattiva per il suo pensiero divenuto il suo unico oggetto.
da Giuseppe Ungaretti, Il povero nella città,
1949; a cura di Carlo Ossola, SE, Milano 1993
“Il Sole/24 Ore”, Domenica, 20 febbraio 2005, n. 50, p. 31