Leonardo Sciascia

“Il Gattopardo”

“Crede davvero lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissa quanti imani musulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III. E chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni…”.

Chevalley è un funzionario piemontese; don Fabrizio Salina gli spiega le ragioni sue, e della Sicilia, per cui non sente di dover accettare la nomina a senatore del Regno. Siamo nel novembre del 1860, a Donnafugata, un paese della provincia di Girgenti che potrebbe anche essere Palma di Montechiaro. È un momento essenziale del romanzo II gattopardo di Giuseppe Tomasi, principe di Lampedusa e duca di Palma: un libro che ci fa venire la voglia di lanciare lo slogan “la letteratura ai letterati” (e la terra ai contadini, s’intende): che magari sarebbe 1’ora (ma a patto che i letterati non abbiano riserve sulla terra da dare ai contadini).

Non stiamo scherzando. II principe di Lampedusa è stato un gran letterato, e basta questo libro a dimostrarcelo; ma in quanto a dare le terre ai contadini (non diciamo le sue, che non sappiamo molto della sua vita, e tanto meno del suo patrimonio) non ha certo sentito profonda inclinazione: e non per ragioni “particolari”, ma per congenita e sublime indifferenza.

Quel che il principe Salina rivela al piemontese Chevalley e la motivazione di questa indifferenza; motivazione che peraltro offre appigli di impugnativa, come si dice in linguaggio giuridico. E innanzi tutto: gli imani Arabi; la convinzione del principe Salina e del principe di Lampedusa che gli Arabi abbiano trovato la Sicilia “così”, nelle stesse condizioni in cui la trova il sottoprefetto di Vittorio Emanuele II.

È lo stesso errore di quei valent’uomini che dicono Seneca avere il senso della tragedia per il fatto di essere spagnolo: e la loro nozione della Spagna è invece relativa ad una entità storico-ambientale, ad una “dimora vitale” direbbe Americo Castro, quale è venuta formandosi dopo Seneca, dopo gli Arabi, dopo i moriscos, dopo la scoperta dell’America, dopo l’lnquisizione. In questo senso, Seneca non era spagnolo. E la Sicilia non era Sicilia. Perché noi diciamo Sicilia e intendiamo la Sicilia degli Arabi, dei Normanni, dei Vespri, degli Aragonesi, dei viceré spagnoli; la Sicilia dei Borboni e dei Savoia, la Sicilia dei Fasci socialisti. Ma un governa-tore arabo aveva di fronte una di versa “dimora vitale”, che è relativa, come l’anello di una catena, nella nostra nozione della Sicilia, ma che per lui era assoluta ed unica. II paesaggio stesso della Sicilia era, agli occhi dell’iman arabo, tutt’altra cosa: poiché sotto il governo degli Arabi, appunto, la Sicilia diventava, da granaio, giardino — almeno là dove ci fosse una vena d’acqua da sfruttare e in certi luoghi presso il mare.

Abbiamo voluto fermarci su questo dettaglio, per il fatto che a questo dettaglio si aggancia tutta la rappresentazione della Sicilia in cui il principe Salina si muove. La Sicilia del Gattopardo ha un vizio di astrazione — come dire? —. geografico-climatica. “Ho detto i si-ciliani” — dice don Fabrizio Salina a Chevalley — “avrei dovuto aggiungere la Sicilia, 1’ambiente, il clima, il paesaggio siciliano… Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Prudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato di cose, qui ed altrove, è del feudalesimo; mia cioè, per così dire. Sarà. Ma…”.

Ma, ci permettiamo noi di obiettare, in quanto a clima e a paesaggio, 1’Arabia non è da meno della Sicilia: e ciò non ha impedito a un popolo disperso e indolente di muovere alla conquista di tutte le terre mediterranee. Perciò siamo più portati a sottoscrivere le idee dell’ebreuccio tedesco che non le considerazioni del principe Salina. Per incidente: il non far ricordare a don Fabrizio il nome dell’ebreuccio tedesco è una trovata all’Anatole France; ma il vuoto di memoria in don Fabrizio è più improbabile (intendiamo, si capisce, dal punto di vista dell’arte) di quanto non fosse in Ponzio Pilato: il quale, in un famoso racconto di France, non si ricorda per niente di quell’ebreo di Palestina che sotto il suo consolato patì crocefissione. Insomma: appena il principe Salina dice “un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome” il lettore pensa “ecco il principe di Lampedusa che si diverte”. Del resto il libro si svolge, con letteratissima abilita ed una certa ironia, su due piani: quello dell’autobiografia, dell’autoritratto, della proustiana memoria; e quello della ri-costruzione oggettiva, però condizionata da araldiche suggestioni. II risultato è affascinante. È un gran bel giuoco e, sia detto senza ombra di ironia, il principe di Lampedusa l’ha fatto saggiamente durar poco: tanto da lasciare un solo libro. Un libro che ci affascina, che ci diverte, che ci fa riflettere — e, soprattutto, che ci lascia ancora più radicati nelle convinzioni nostre, nel nostro modo di essere siciliani: ma dopo averci intellettualmente e sentimentalmente provocati a cercarne le ragioni, anche quelle ragioni di cui, secondo Pascal, il cuore vive senza che la ragione le conosca.

II fatto è che Il gattopardo è un libro scritto da un gran signore. Un gran signore “non è altro che qualcheduno che elimina le manifestazioni sempre sgradevoli di tanta parte della condizione umana e che esercita una specie di profittevole altruismo”: illuminante definizione che il Tomasi mette nei pensieri di Calogero Sedara, che gran signore non è. Illuminante, diciamo, per certe personali considerazioni che veniamo facendo sulla incidenza di una simile condizione nella letteratura. Abbiamo sempre pensato, per esempio, che la chiave per intendere i Promessi Sposi, nei suoi limiti e nella sua grandezza, stia in quel dettaglio del “lieto fine” in cui l’erede di don Rodrigo mette a tavola Renzo e Lucia finalmente sposi e si ritira poi a far pranzo per conto suo insieme a don Abbondio. “II marchese fece loro una gran festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola gli sposi, con Agnese e con la mercantessa; e prima di ritirarsi a pranzare altrove con don Abbondio, volle star lì un poco a far compagnia agli invi-tati, e aiutò anzi a servirli. A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l’ho dato per un brav’uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora; v’ho detto che era umile, non gia che fosse un portento di umiltà. N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari«.

Anche Manzoni e come il marchese del suo romanzo: ha tanta umilità da scrivere addirittura un libro (e che libro!) per servire “quella buona gente”, ma non tanta “per istar loro in pari”. Col suo cattolicesimo da gran signore (e in questo conto bisognerebbe mettere anche le venature gianseniste), Manzoni si mette al di sotto degli umili: col suo “particolare” illuminismo da gran signore, Giuseppe Tomasi li guarda di sfuggita in quanto “sgradevole manifestazione della condizione umana”.

“Come conseguenza di alcune associazioni di idee che non sarebbe opportuno precisare, l’affaccendarsi di quegli insetti impedì il sonno al Principe e gli fece ricordare i giorni del plebiscito”: la visione delle formicole si associa all’idea del plebiscito; soltanto sotto questa forma il popolo entra, e per una volta, nei pensieri di don Fabrizio Salina. Per contrasto, si pensa al Verga: non alle opere che scrisse, che il discorso ci porte-rebbe molto lontano, e non sappiamo poi con quale profitto; ma a quell’opera che non scrisse e che doveva essere la terza del ciclo dei “vinti”: diciamo La duchessa di Leyra. Francesco Guglielmino, che da giovane fu amico del Verga e ne raccolse le rare confidenze, soleva raccontare un significa-tivo aneddoto. Aveva letto su un giornale la notizia che La duchessa di Leyra stava per essere finalmente consegnata alle stampe: e volle chiedere a Verga conferma della notizia. Verga si rabbuiò in faccia; poi, come stesse per confidare un segreto increscioso, chiese: “Parlu cu Guglielminu amicu o cu Guglielminu giornalista?”. Guglielmino gli assicurò che senz’altro parlava all’amico; e Verga, sempre in dialetto, disse con contenuta collera:”Allora vi dico che io non scriverò mai La duchessa di Leyra. La povera gente (in dialetto disse: la gintuzza) sapevo farla parlare: con le persone del gran mondo non ci riesco. È gente che in ogni cosa che dice mente due volte: se ha debiti, dice di avere il mal di testa…”. In verità, anche ad ammettere che la gente del gran mondo mette doppia menzogna in ogni cosa che dice, ci sarebbe da obiettare che un romanziere dovrebbe sentirsi portato a rappresentare gente simile, al di là o in funzione della repugnanza morale. Verga poteva anche essere convinto che la sua incapacità a far parlare la gente del gran mondo scaturisse da un giudizio o da un pregiudizio morale: noi ci fermiamo ad accettare soltanto la sua dichiarazione di incapacità, che peraltro è tradizionale nelle correnti realistiche dell’arte e della letteratu-ra italiana. A Lawrence riusciva insopportabile il fatto che tutto il senso tragico di Gustavo Flaubert fosse andato a finire dentro “la pelle vile” del medico condotto Carlo Bovary: e da parte nostra possiamo confessare che ci dà un po’ fastidio il fatto che tutto il senso tragico di Giovanni Verga vada a finire in padron ‘Ntoni. Per esemplificare: il nostro realismo è un po’ sulla linea del Caravaggio: che dipingeva le popolane da Madonne e i facchini da santi; mentre sarebbe stato più realistico dipingere come Madonne e santi i cortigiani della curia romana e le loro mogli, con tutta l’ipocrisia della Controriforma nelle loro figure.

Insomma: quando nelle ultime pagine del Mastro-don Gesualdo il portone del palazzo dei Leyra vien chiuso in segno di lutto, Verga esce per sempre da quel mondo. Morto Gesualdo, che in quel palazzo era andato a finire i suoi giorni, estraneo e dolente, Verga si allontana definitivamente dalla gente del gran mondo: lasciandovi, come personaggio in cerca d’autore, la figlia di Gesualdo e di una Trao, divenuta duchessa di Leyra. Ed e dopo più di mezzo secolo che questo personaggio incontra il suo autore: ed e un autore che sa far parlare la gente del gran mondo, ma non sa far parlare la povera gente; e ne abbiamo la prova in quel capitolo che racconta del soggiorno di padre Pirrone tra i suoi, nel paese di San Cono. Una specie di discesa agli inferi del padre gesuita: da un mondo in cui tutto e, per dirla con un verso famoso, “ordine calma e voluttà” ad un mondo, in ogni senso sgradevole, di gente avida litigiosa istrionesca. I termini dell’affermazione di Verga si rovesciano: sono i poveri che “mentono due volte”, come quel cognato di padre Pirrone che tiene di mafia e parla dell’onore, e mentre ne parla fa miserabile calcolo della roba.

A don Pietrino 1’erbuario padre Pirrone spiega che cosa sono i signori:

Vedete, don Pietrino, i ‘signori’ come dite voi, non sono facili a capirsi. Essi vivono in un universo particolare che e stato creato non direttamente da Dio ma da loro stessi durante secoli di esperienze specialissime, di affanni e di gioie loro: essi posseggono una memoria collettiva quanto mai robusta, e quindi si turbano o si allietano per cose delle quali a voi ed a me non imporra un bel nulla, ma che per loro sono vitali perché poste in rapporto con questo loro patrimonio di ricordi, di speranze, di timori di classe… forse ci appaiono tanto strani perché hanno raggiunto una tappa verso la quale tutti coloro che non sono santi camminano, quella della noncuranza dei beni terreni mediante 1’assuefazione… Questi nobili poi hanno il pudore dei propri guai…

Ed ecco in Verga, nei pensieri di Gesualdo, quale luce di spavento assumono queste considerazioni di padre Pirrone:

Misuravano fino le parole e i sospiri in quella casa, ciascuno chiudendosi in corpo i propri guai, il duca col sorriso freddo, Isabella con la buona grazia che le aveva fatto insegnare in collegio. Le tende e i tappeti soffocavano ogni cosa. Però, quando se li vedeva dinanzi a lui, marito e moglie, cosi tranquilli, che nessuno avrebbe sospettato quel che covava sotto, si sentiva freddo nella schiena.

Leggendo a confronto questi punti dei due libri, pare che padre Pirrone non a don Pietrino 1’erbuario, che peraltro si e addormentato sulla sedia, ma al povero mastro-don Gesualdo stia spiegando il significato e il valore dell’aristocrazia: spiegazioni che certo non varrebbero a togliere quel freddo nella schiena che Gesualdo sentiva; ne possiamo dire che valgono molto per noi, specie là dove padre Pirrone conclude in avveniristica divinazione:

E vi diro pure, don Pietrino, se, come tante volte è avvenuto, quella classe dovesse scomparire, se ne costituirebbe subito un’altra equivalente, con gli stessi pregi e gli stessi difetti: non sarebbe più basata sul sangue forse, ma che so io… sull’anzianità di presenza in un luogo, o su una pretesa miglior conoscenza di qualche testo presunto sacro.

Siamo bell’e serviti: il principe di Lampedusa ci fa dire da padre Pirrone che la storia tiene in serbo per noi del 1960 (una data cui don Fabrizio fa una volta riferimento), altre aristocrazie, con tutti i pregi e i difetti dell’aristocrazia del sangue: l’aristocrazia basata “sull’anzianita di presenza in un luogo” (cioè degli Stati Uniti) e quella basata su una “pretesa miglior conoscenza di qualche testo presunto sacro” (cioè dell’Unione Sovietica).

Ma lasciando da parte questo raffinato qualunquismo, torniamo a considerare l’unico ma effettuale punto di incontro tra Giovanni Verga e il principe di Lampedusa: la figlia di Gesualdo Motta diventata duchessa di Leyra e la figlia di Calogero Sedara diventata prin-cipessa Falconeri.

Sebbene protagonista del Gattopardo sia il principe Salina, tecnicamente, in quanto racconto, il libro non esisterebbe senza Angelica Sedara: e forse questo personaggio è da considerare come l’immagine prima da cui la fantasia e la memoria del Tomasi abbiano preso avvio. È probabile che quella larva di personaggio che è la duchessa di Leyra abbia agito suggestivamente nella fantasia del Tomasi, sciogliendosi in quella memoria che padre Pirrone chiama collettiva e noi diremmo genealogica?

È significativo, intanto, come fin dalla prima apparizione di Angelica (apparizione tutta cinematografica, per cui il lettore si trova automaticamente a impresta-re ad Angelica i tratti di imperiosa bellezza e di misti-ficatoria educazione di una Ava Gardner) l’autore tenga ad avvertirci che anche lei, cosi splendida e vibrante, sarà creatura del mondo dei vinti: senza amore, senza verità, senza intima bellezza, con accadimenti di squallido adulterio e di serate di gala. A differenza di Verga, che sentiva superstizioso terrore di quella che si suole chiamare “ascesa sociale”, il Tomasi non pone sulla vita di Angelica quella specie di maledizione per cui nei Malavoglia va a fondo il carico dei lupini e la famiglia si sgretola e disperde, e Gesualdo Motta muore sotto il peso di quel che aveva costruito, e cosi erano destinati a soccombere la duchessa di Leyra e l’onorevole Scipioni. II principe di Lampedusa sa che i suoi antenati normanni o catalani non erano niente di meglio di un Gesualdo Motta o di un Calogero Sedara: e la donna splendida e sana, figlia di Calogero Sedara e nipote dello innominabile Peppi, un po’ rappresenta quell’elemento di felice commistione che in Altezza Reale di Thomas Mann, a rinvigorire l’esausta dinastia di Grimmbart, e rappresentato dall’americana Imma Spoelmann. A momenti, anzi, pare che il destino d’Angelica resti, nella fantasia del Tomasi, indeciso tra quello di Isabella di Leyra e quello di Imma Spoelmann: e quando più la fantasia gli si incanta di Angelica, a farne immagine sempre viva di bellezza e di amorosa felicita, ecco intervenire la scettica saggezza:

Quelli furono i giorni migliori della vita di Tancredi e di quella di Angelica, vite che dovevano poi essere tanto variegate, tanto peccaminose sull’inevitabile sfondo di dolore. Ma essi allora non lo sapevano ed inseguivano un avvenire che stimavano più concreto, benche poi risultasse formato di fumo e di vento soltanto. Quando furono diventati vecchi ed inutilmente saggi. i loro pensieri ritornavano a quei giorni con rimpianto insistente…

Questa espressione — “inutilmente saggi” — ci offre modo di sciogliere la cifra del libro: che e quella della “saggezza utile” in cui l’alternativa si fa sintesi. Perché un uomo dovrebbe o vivere o vedersi vivere? È da questa dualità che nasce la romantica infelicità del-l’uomo: sia che ci guardiamo vivere attraverso l’occhio lontano di Dio o attraverso quello prossimo “degli altri”, sia che viviamo senza aver scienza del nostro cuore, senza vedere noi stessi. L’utile saggezza sta nel vivere e nel vedersi vivere: l’unica possibile felicita cui l’uomo può accedere — la felicita dell’uomo classico, la felicita di Montaigne.

Dobbiamo confessare che l’immediata lettura del libro ci lascio molto perplessi nella definizione dell’ironia che lo muove: che il richiamo a Brancati ci sembrò senz’altro approssimativo, né d’altra parte riuscivamo a scoprirne il meccanismo più vero.

Finché da Tancredi ed Angelica, per un momento intravisti “diventati vecchi ed inutilmente saggi”, non siamo risaliti a scoprire l’utile saggezza di don Fabrizio Salina, cioè la sua essenza di uomo classico. I vinti, usando ancora l’espressione verghiana, sono nel romanzo i personaggi “romantici” (si capisce che non ci riferiamo ad atteggiamenti, ma a modi di essere): dall’alto della sua utile saggezza don Fabrizio, affettuoso o spietato o indifferente che sia, li domina. È una saggezza che, al di sopra di ogni lacerazione o dissidio esistenziale, opera sulla realtà oggettiva con una forza che potremmo dire “riduttiva”, sempre nel senso dell’utile: che non e l’utile pragmatico e strumentale, o almeno non lo e per quella noncuranza prodotta dalla assuefazione di cui padre Pirrone discorre.

Questa “riduzione” della realtà è tipica del gran signore. Quando l’uomo classico, che è un “risultato” là dove l’uomo romantico è una “condizione”, si incontra con quel “risultato”che è il gran signore, la capacità di “ridurre” il mondo che è propria all’uomo classico, si fonde alle capacità “riduttive” che sono proprie alle classi aristocratiche: e nasce un Guicciardini, un Montaigne, un Manzoni. Dalla loro situazione di “superiorità” generano naturalmente ironia. Hobbes dice che il riso nasce dalla improvvisa coscienza della nostra superiorità sugli altri: è comico cioè veder cascare a terra qualcuno, ma a patto che per noi non ci sia eguale pericolo. Ora l’ironia si può dire nasca dalla coscienza, non improvvisa ma stabilmente acquisita, della nostra superiorita. L’ironia appartiene all’uomo classico.

Approssimativamente, è da una simile situazione che discende l’ironia del principe di Lampedusa. E ci pare di poter segnare il punto estremo toccato dalla sua ironia, là dove, di Angelica che sussurra all’orecchio di don Fabrizio l’appellativo di “zione” insegnatole da Tan-credi, dice: “felicissimo gag, di regia paragonabile in efficacia addirittura alla carrozzella da bambini di Eisenstein”. Chi ha visto il film La corazzata Potiemkin, ricorderà la sequenza delle guardie che, dall’alto di una gradinata, sparano sulla domenicale folla di Odessa: sequenza che trova una sua sintesi in quella carrozzella che abbandonata scende la gradinata. Ora non si tratta di un gag ma, appunto, di una tragica sintesi: ed è qui che l’ironia del Tomasi giunge ad un estremo, e indicativo, distacco.

1959

ora in Leonardo Sciascia: Pirandello e la Sicilia, Salvatore Sciascia,

Caltanisetta-Roma 1961, pp.147-159