Giuseppe Tomasi, duca di Palma e principe di Lampedusa, nacque a Palermo il 23 dicembre 1896, e morì a Roma nel luglio del 1957. Appena ventenne aveva interrotto gli studi per andare al fronte. Fatto prigioniero, evase due volte dal campo di concentramento di Posen, e la seconda con pieno successo: travestito, attraversò mezza Europa a piedi, rientrando felicemente in Italia.
Ufficiale effettivo fino al ’25 si interessò poi sempre di cose militari (quella di Clausewitz era una delle sue letture preferite), e fece in tempo a partecipare, come capitano di artiglieria, anche al secondo conflitto mondale. Soggiornò a lungo all’estero: in Francia, in Inghilterra, in Lettonia. Nel dopoguerra accettò, ma per breve tempo, la carica di presidente della Croce Rossa per la Sicilia.
In realtà la sua passione più vera fu sempre quella della lettura. Lettore accanito, forse con eccesso di consapevolezza critica scrisse poco e non stampò mai nulla. Oltre al Gattopardo che stese di getto nel suo ultimo anno di vita, di lui non restano che quattro racconti e alcuni saggi sulla letteratura francese dell’Ottocento.
Il Gattopardo, ad ogni modo, è opera di raro impegno. Come I Viceré di Federico De Roberto, si tratta di un romanzo storico, ambientato in Sicilia all’epoca del tramonto borbonico. È di scena anche qui una famiglia dell’alta aristocrazia isolana, colta nel momento rivelatore del trapasso di regime, mentre già incalzano i tempi nuovi.
Ma, se la materia del Gattopardo ricorda molto da vicino quella del gran libro del De Roberto, è lo scrittore, il modo come questi si pone di fronte alle cose, a differire sostanzialmente. Nessun residuo di pedanteria documentaria, di oggettivismo materialistico, in Tomasi di Lampedusa. Accentrato quasi interamente attorno a un solo personaggio, il principe Fabrizio Salina (forse un autoritratto sotto mentite spoglie), lirico e critico insieme, il suo romanzo concede assai poco, e questo poco non senza sorriso, alla trama, all’intreccio, al romanzesco, così cari a tutta la narrativa europea dell’Ottocento. Insomma meglio che a De Roberto, Tomasi di Lampedusa è da accostare al contemporaneo Brancati.
E non solo a Brancati, ma anche, probabilmente, ad alcuni grandi scrittori inglesi di questa prima metà del secolo, che certo ebbe famigliari: al pari di lui poeti lirici e saggisti piuttosto che narratori “di razza”. Comunque sia, l’immagine della Sicilia che si ricava dal Gattopardo non ha mai niente di oleografico. È un’immagine viva, animata da uno spirito alacre e modernissimo, ampliamento consapevole della problematica storica politica e letteraria contemporanea.
Con questo, credo di aver detto l’indispensabile. Più tardi provvederà certamente la critica, non ne dubito, a collocare lo scrittore al giusto posto, nella ricca tradizione dei romanzieri siciliani che va da De Roberto a Brancati. (Non dovrà essere sottovalutata, però, l’influenza che indubbiamente ebbe su di lui la moderna tecnica narrativa inglese: per esempio quella di una Forster.)
Quanto a me, ripeto, preferisco per ora non aggiungere altro. Sono persuaso che la poesia, quando c’è – e qui sono sicuro che ci sia – meriti di essere considerata almeno per un momento per quello che è, per lo strano gioco di cui consiste, per il primordiale dono di illusione, di verità, e di musica che vuol darci anzitutto.
Si legga dunque da capo a fondo il romano, con l’abbandono che pretende per sé la vera poesia. Frattanto, dal canto suo, il più vasto pubblico dei lettori avrà avuto il tempo di innamorarsi ingenuamente, proprio come usava una volta, di quei personaggi della favola dentro i quali l’autore, anch’egli come usavano una volta i poeti, se ne sta chiuso. Del principe don Fabrizio Salina, voglio dire, di Tancredi Falconeri, di Angelina Sedàra, di Concetta, e di tutti gli altri, il povero Bendicò compreso.
In: “La Voce della Giustizia”, 17 gennaio 1959 (testo in gran parte uguale a quello
della Prefazione alla prima edizione del 1958)
Fonte: “Speciale” della casa editrice Feltrinelli, www.feltrinellieditore.it