Ritornati a Recanati per questo bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi e pensando al mistero della sua poesia, ci poniamo ancora una volta la domanda: qual è il vero Leopardi, il meno violentato e abusato? Leopardi va visto prima di tutto nella più alta accezione della solitudine e in quel suo essere e vivere al di fuori della meravigliosa biblioteca preparatogli dal padre, affascinato dall’impresa in cui l’uomo si misurava direttamente con Dio. Di fronte al suo discorso poetico che, dopo essersi prima arricchito di infinite letture, della storia e delle rivoluzioni del mondo contemporaneo, si era ramificato per diventare poesia di purezza cristallina, cade il gioco delle attribuzioni, delle fonti e delle imitazioni.
A differenza dell’ammirato Pascal, Leopardi cercava però un dio ignoto e più esigente; non credeva più nel soccorso della ragione e, checché se ne dica oggi, della scienza, è passato a una riduzione radicale delle attese, delle ricchezze interiori dell’uomo e si è deciso a vivere da solo “in un perenne ragionar sepolto” sulla nostra miseria e sulla nostra ingannevole e fallace natura.
Leopardi è un esempio forse inimitabile e irrepetibile. Ma ancora oggi bisogna dire che la sua eredità non è stata colta in modo giusto dalla critica, da molti anni più dedicata al divertissement, che non ha compreso che Leopardi aveva saputo fondere insieme così bene poesia e filosofia, ricerca di Dio e presenza della realtà. Leopardi per noi non è diventato un punto di riferimento nei nostri anni di guerre, di violenze e di abusi di potere e, neanche, nelle disquisizioni su nuovi indirizzi della filosofia e su nuove forme letterarie.
Leopardi stesso invece si è interrogato sul destino dell’uomo e sulle mura invalicabili della prigione in cui siamo stati rinchiusi nascendo, e non gli è servito a nulla scappare da Recanati, allargare il mondo delle sue conoscenze, cambiare paesi e città, e questo perché aveva ben fisso nella mente il suo punto d’arrivo, la morte del paese delle ginestre, o per dirlo con Unamuno, del fiore eterno che gli uomini non possono conoscere. Egli è vissuto in questo suo stato di condannato a morte e non si è mai servito di palliativi, di illusioni e nemmeno ha dato credito alle passioni umane delle quali pure riconosceva la forza dirompente e insuperabile. Non è stato un pessimista e neppure un razionalista disilluso, è stato invece un grande distruttore delle nostre così modeste illusioni e infatuazioni. Egli ha accettato di restare nudo di fronte alla miseria umana, al contrario di quello che facciamo noi abitualmente e di quello che sanno fare bene o male gli scrittori che si pavoneggiano e nascondono dietro i loro panni, che devono essere sempre più ricchi e ornati di facili promesse.
A noi, invece di esercitare la nostra acribia sui suoi testi e sui documenti d’archivio, ci dovrebbe, ci deve bastare la purezza della sua poesia, il suo denudamento e la sua disperata e mai detta fede in Dio.
— Carlo Bo, luglio 1998