Gli italiani hanno finalmente scoperto Cervantes e si sono messi a leggere il Don Chisciotte? La domanda che per forza di cose resta oggi senza una risposta sicura, è però autorizzata dalla moltiplicazione delle traduzioni del capolavoro cervantino in questo dopoguerra. abbiamo avuto quella dell’Utet a cura di Gherardo Marone, quella di Einaudi, opera di Vittorio Bodini, ed ecco, freschissima di stampa, quella di Cesco Vian e Paula Cozzi delle “Edizioni per il club del libro” di Milano.
Se si aggiungano le traduzioni dell’Ottocento e della prima metà del Novecento ancora in commercio, bisogna ridimensionare per forza il campo della curiosità italiana. Un campo che per ora resta circoscritto al lavoro di divulgazione – sia pure alto e controllato -, ma in avvenire dovrà essere allargato e nutrito in profondità con interessi critici più diretti e responsabili. Non che in passato siano mancate in Italia opere di questo tipo (basterà ricordare i libri di De Lollis e di Casella), è però un fatto sicuro e indiscutibile che da noi non si è avuta quella particolare letteratura di amplificazione che sul tema Don Chisciotte ha intrecciato un dialogo moderno, vivo e attuale. Nulla, cioè, di quello che si è verificato altrove, specialmente in Inghilterra e in Germania, sulla spinta del romanticismo. Un lavoro che preso a sé costituisce un vero e proprio capitolo della storia dell’intelligenza moderna, e ha fatto bene il Vian nella sua dotta introduzione a segnare i confini e a valutarne le intenzioni.
Il Vian, dopo aver illuminato il vastissimo panorama della critica cervantina, ha creduto opportuno indicare al lettore italiano una strada di prudente intelligenza del Don Chisciotte, al di fuori delle sollecitazioni curiose o troppo azzardate o comunque pericolose per una esatta valutazione dell’opera. Che cosa suggerisce l’ultimo traduttore italiano? Accettare con forte criterio di discrezione i vari punti di vista, ma alla fine restituire alle intenzioni del Cervantes la giusta dose di verità: credere, cioè, a quello che Cervantes ha detto di aver voluto fare con la storia del suo “fantasioso gentiluomo”, senza esasperare i sottintesi, le allusioni, i contraccolpi di una realtà dolorosa che lo scrittore avrebbe per ragioni di opportunità travestito o addomesticato.
Come si vede, la posizione del Vian pecca – caso mai – per eccesso di onestà e di buona fede; ma chi conosce il quadro delle infinite interpretazioni del capolavoro cervantino, non potrà che apprezzarla meglio e coglierne la varietà di rapporto. Per accreditare la sua raccomandazione di stare alla lettura del libro, con tutti i soccorsi dell’intelligenza artistica, storica e filosofica, il Vian mette in rilievo la grande importanza dell’ultimo capitolo del libro o, per meglio dire, della morte dell’eroe.
Generalmente, e soprattutto da parte di quei critici che erano preoccupati di trovare la dimostrazione di una “loro” tesi, si ritiene che la morte di Don Chisciotte sia soltanto uno stratagemma, e per di più abbastanza banale e puerile, per trovare una soluzione di comodo, in netto contrasto con la verità stessa del libro. Il Vian nega recisamente tale supposizione e trova nella malattia, nel testamento e nella morte di Don Chisciotte, l’esatta articolazione di risposta all’avventura della vita, agli errori, agli eccessi del protagonista. è un modo di comporre naturalmente – proprio il contrario dell’arbitrio e dell’accorgimento – il disegno di una esistenza, che ha peccato per mancanza di unità e di equilibrio.
In altre parole, il Vian raccomanda di non scegliere un momento, una frase dell’eroe per costruirci sopra una filosofia, una interpretazione della vita, soprattutto della vita che deve servire a noi; mentre si batte per restituire alla storia di Don Chisciotte un senso di responsabilità, insomma quel modo di vedere le cose della realtà “insieme” e non da un solo punto di vista, sul filo di un equilibrio inventato. Con ciò non si rinnegano quelli che sono i diversi “punti di vista”, su cui del resto proprio il Cervantes ha costruito il mondo del suo eroe.
Nella lettura dei libri fondamentali, ci si illude spesso di trovare tutte le sollecitazioni possibili, ma bisogna stare attenti a non rompere quell’equilibrio naturale, quel lavoro di collaborazione, per estrarre il motivo che più c’interessa in quel preciso momento. Oltretutto, si tratta di letture antistoriche e provvisorie. Purtroppo tale tendenza ha trovato nel campo cervantino la possibilità di svilupparsi in maniera paradossale. La bibliografia critica cresce in tutto il mondo, ma buona parte delle sue voci rientrano in quella categoria degli arbitrii di natura intellettuale, e sembrano riferirsi proprio a quel tipo di letteratura fantastica che è stata la prima rovina della saggezza di Don Chisciottre., Penso, per fare un esempio, ai saggi raccolti da José de Benito in un recente volume pubblicato a Madrid da Aguilar, Hacia la luz del Quijote, e alla vanità, allo spreco di tanto ingegno per approdare a dei risultati gratuiti e cervellotici, diciamo pure a una critica anagrammatica.
Ma ritorniamo al punto che ci interessa oggi, alla morte di Don Chisciotte. Dice bene il Vian: “La conversione finale di don Chisciotte non rappresenta affatto, come sembrò ai romantici, un «rinnegamento» degli ideali della cavalleria, quindi una specie di tradimento, di brutto tiro giocato da Cervantes nei riguardi della sua creatura. …In quel capitolo finale – per nulla affrettato o posticcio, bensì al contrario solenne e patetico – Don Chisciotte doveva riconoscere i propri torti, che esistevano effettivamente, ed erano gravi.” Parole giuste; e per trovarne la verità, bisognerebbe poter immaginare un’altra soluzione al Don Chisciotte, trovare un’altra fine all’eroe. Quale fine, quale morte? Basta farsi la domanda per capire che qualsiasi altra soluzione avrebbe peccato di arbitrio, di eccesso, sarebbe stata ancora un “gesto” contro lo spirito di unità. Per restare nella favola, la chiave di tutta la vicenda donchisciottesca sta nelle sei ore di sonno che mutano il corso della sua vita e determinano la sua ritrattazione, ma – si badi bene – ritrattazione nella verità, attiva, non già di comodo.
“Don Chisciotte prego che lo lasciassero solo perché voleva dormire un poco. Obbediscono, e dormì tutto filato, come si usa dire, per più di sei ore tanto che la governante e la nipote temettero che sarebbe rimasto morto nel sonno… .” E la spiegazione del sonno l’abbiamo poco dopo, quando parlando alla nipote, egli dice: “Vorrei morire in tal modo da far capire che la mia vita non fu tanto cattiva da meritarmi la fama di pazzo: che, sebbene lo sia stato, non vorrei confermare questa verità con la mia morte.” Che non è una sconfessione, ma al contrario è una rivendicazione della propria libertà nella luce dell’unità e dell’equilibrio umano. Se non ci fosse stato l’ultimo sonno terreno di Don Chisciotte, si potrebbe pensare a una fine posticcia, a un arbitrio; ma c’è quel lungo spazio d’ombra, c’è quel tempo di silenzio di cui non sapremo indagare mai bene il peso di mistero e il rapporto di verità: sono lo spazio e il tempo della definitiva metamorfosi di Don Chisciotte in uomo, in un qualsiasi Alonso Chisciano, soprannominato il Buono. Là è avvenuto l’accordo, quel modo di ritrovarsi nella realtà che Sansone Carrasco illustrerà nell’ultima frase del suo epitaffio: “Vivere pazzo e morir savio.” Il sonno è stato così la strada della composizione finale di Don Chisciotte, il filtro delle illusioni e del famoso disinganno.
“La Stampa”, 8 agosto 1957