Naufragare con Sainte-Beuve

STEBEUVE“Elevons un peu notre pensée”, così comincia la lunga parafrasi di Charles Augustin Sainte-Beuve, sulla spinta della frase pascaliana: “Combien de Royaumes nous ignorent!”, scritta pensando alla sua opera di poeta e di romanziere ma soprattutto alla sua esperienza di lettore e di interrogatore d’anime. Oggi questa amara e disperata confessione la possiamo leggere nella traduzione di Carla Ghirardi di Mes poisons con un intelligente introduzione di Jacqueline Risset.
Vale la pena di rileggerla: “Dedichiamoci a pensieri un po’ più elevati. Che cosa è il desiderio di gloria negli uomini, a bordo di questa terra che naviga nello spazio infinito dove un giorno farà naufragio? Mi sembra di vedere, su una grossa nave destinata al naufragio, o piuttosto il cui naufragio è continuo e già iniziato, numerosi passeggeri, non uno dei quali arriverà a destinazione: i primi morti nutrono il folle desiderio di occupare la memoria dei superstiti, di coloro cioè che a loro volta scompariranno quanto prima negli abissi. È vero che, a vederlo da vicino, il vascello è immenso, i passeggeri di un ponte non conoscono quelli dell’altro, la poppa ignora la prua: per questo nasce l’illusione. È vero anche che, mentre in un angolo della nave si muore, non molto lontano. si. danza, si. celebrano matrimoni, si festeggiano nascite. è vero che l’equipaggio si riproduce e non diminuisce di numero. Ma che importa? Nonostante questo, il tutto è votato a una sola e medesima fine. Nessuno uscirà da questa massa galleggiante per andare a depositare il suo nome, o quello dei suoi simili, sulle costiere sconosciute, sui continenti e le isole senza numero che punteggiano il meraviglioso azzurro. Tutto accade qui dentro e a porte chiuse. Vale la pena? – La mia è una lunga parafrasi, ma Pascal ha reso questi pensieri con una sola frase: ‘Quanti regni ci ignorano!’”
È una delle confessioni più drammatiche dello scrittore e del critico che ha sempre cercato di legare la nozione di letteratura alla vita e basterebbe a sconfessare quanti ancora si ostinano a considerarlo uno spirito gravato e oppresso da sentimenti di invidia e di gelosia. Nell’opinione comune Sainte-Beuve passa per essere un distillatore di veleni. Ora se è vero che lui stesso parla di veleni e di arsenale di veleni, non dobbiamo dimenticare che questa definizione è attenuata dalle sue stesse delucidazioni e specialmente .dalla sua condotta, dalla sua regola di lettore.
Quando nel 1926 Victor Giraud pubblicò per la prima volta questa raccolta di pensieri con il titolo di Mes poisons, in parte diede un risalto particolare alle confessioni del critico, rintracciabili nei suoi ,quaderni, ma nello stesso tempo commise un piccolo abuso, di cui vediamo ancor oggi i segni e le conseguenze. Mo spiego, queste annotazioni vanno riportate in un contesto assai più ampio e ricco, quale è stato poi definito nel 1973 da Raphaël Molho, editore dei Cahiersdi Sainte-Beuve: una sorta di diario epperò proprio come giornale di bordo devono essere lette. D’altronde il critico era troppo acuto per non saper distinguere il veleno dagli altri elementi della sua critica e, al contrario di quanto si pensa, era sempre pronto a separare la parte cattiva da quella dell’oggettività. Leggendo i Cahiers si vede con quanto scrupolo sapeva e voleva tornare sulle sue “boutades”, sui suoi momenti di malumore e magari di perfidia, talché nessuno potrebbe accusar lo di aver ceduto alla passione. Alla fine la coscienza aveva partita vinta sull’emozione e sulla violenza improvvisa di certi suoi risentimenti.
Ma non si tratta di economia letteraria, nella confessione di suono pascaliano c’è ben altro ed è un qualcosa che ritroviamo sempre nell’opera del critico, attraverso quella rete di confronti e di riesami che è durata fino all’ultimo. Il polemista arrivava fino a un certo punto, dopo cedeva la guida al suo senso della giustizia che era grande. Si è detto che il taglio dato dal Giraud poteva ingenerare delle confusioni ed è vero, nel libro costruito sulla traccia di una lettura parziale, ancorché corretta dei Cahiers, si finisce per disegnare e esaltare un’immagine del Sainte-Beuve incompleta e forzata.
Ma non è di questo che ci preme parlare oggi, anche perché la confessione samboviana esige un grado alto di lettura, in modo da sollecitare un esame più profondo del suo lavoro di interprete. La confessione è nata in un momento di desolazione interiore e di assoluta delusione: quando Sainte-Beuve scrive queste parole, non solo pensa al fallimento della sua opera poetica e al tentativo incerto e maldestro di Volupté, pensa alla parte ben più solida della sua biblioteca, al grande tesoro delle sue letture. Di qui passa all’intelligenza della vita, presa e giudicata nel suo insieme. Perché si scrive, perché questo sfrenato desiderio di gloria e, infine, che cosa resterà di tutta questa meravigliosa navigazione, della flotta dei grandi spiriti? Rimettendo il segno della biblioteca in quello ben più determinante della mappa esistenziale, il risultato era scontato. Sarebbe rimasto poco e quel poco sarebbe stato riservato a una minuscola famiglia di addetti ai lavori e all’altra sempre rinnovantesi degli illusi, degli eterni giuocatoi. Ma non basta, nella sua visione possiamo intravvedere un altro moto dell’animo, un’altra certezza e cioè: per quanto possa essere grande la gloria, per quanto possa essere viva la fama, resta pur sempre il mondo vincente del silenzio e dell’ignoto.
Non c’è dubbio, è su questa base della delusione inevitabile che. Sainte-Beuve giudicava i suoi vicini immediati: più quelli si illudevano di stare al centro del mondo (e allora la cosa era forse ancora  possibile), più lui sentiva la gratuità e la leggerezza di queste ambizioni. Non, dunque, soltanto invidia e gelosia ma piuttosto coscienza dei limiti, non risentimento verso chi aveva strappato il vessillo della gloria quanto preoccupazione nel vedere alterati e traditi i principi dell’onestà e della compostezza. È forse quello che ha dimenticato Proust nella sua famosa contrapposizione, avrebbe dovuto tener conto del fatto che Sainte-Beuve non era un giudice avverso del genio ma era anche giudice di se stesso, più in generale non dimenticava di riportare tutto alla nozione centrale dell’uomo. La sua grande forza non va rintracciata solo nella sapienza delle sue mirabili interpretazioni delle società letterarie ma nella memoria del valore delle passioni, in primis in quella della fragilità e della miseria delle nostre ambizioni. Non per nulla le pagine più crudeli di questi 2veleni” sono proprio quelle che lo riguardano, pochi sono riusciti come lui a scendere nell’inferno del proprio cuore per analizzare le colpe e i vizi della natura.
Vecchio a trent’anni, tradito nella sua vocazione all’amore, condannato a passare la vita tra i libri, le sue stesse colpe sono poca cosa o nulla rispetto alla violenza delle sue illusioni e della sua disperazione. “Sono arrivato, nella vita, all’indifferenza totale. Basta fare ‘qualche cosa’ la mattina ed essere ‘da qualche parte’ la sera! Un lavoro ‘qualunque’ e una distrazione ‘qualsiasi’, e ce n’è già abbastanza.” Altra confessione da interpretare perché il ‘qualche cosa’ del mattino vive ancor oggi di luce propria, sono le Causeries, sono i Nouveaux Lundis, sono insomma tutto lo sterminato dossier delle sue letture e non conta se le sue distrazioni serali non fossero sempre di livello. La storia dei suoi ultimi amori è in fondo una ulteriore appendice della sua disperazione. Ma Sainte-Beuve non dimenticava di dire: “nella vita” e va inteso che nell’ambito della vita è stato uno dei navigatori (sempre la sua parafrasi) più coscienti, più scrupolosamente onesti e – nonostante tutto – più convinti della necessità del lavoro.
Dumas alla fine di una vita colma di successi piangeva tra le braccia del figlio e si chiedeva che cosa sarebbe rimasto della sua opera. Sainte-Beuve ha cominciato a guardare il vero, il tragico vero, alla fine della sua giovinezza e non si chiedeva nulla, non invocava aiuti né pietà. Immaginava fin troppo bene la natura del naufragio che segna la nostra vita e adoperava a piccole dosi il veleno, usava la regola del “contro” per non lasciare il suo posto e tradire la sua prima funzione di interprete e di sperimentatore del cuore umano.

— Carlo Bo, 26 febbraio 1985

Indicazioni bibliografiche

R. Girard: Mensonge romantique et vérité romanesque. Grasset, Paris 1961
A. Sainte-Beuve: I miei veleni. Traduzione di Carla Ghirardi, Introduzione di  Jacqueline Risset. Editrice Pratiche, 1985
C. A. de Sainte-Beuve: Cahiers. 1. Le cahier vert (1834-1847). Texte établi, présenté et annoté par R. Molho. Gallimard, Paris 1973
R. Molho, L’ordre et les ténèbres ou la naissance d’un mythe du 17e siècle chez Sainte-Beuve.  Colin, Paris 1972
C. A. Sainte-Beuve: Volupté. Cronologie et introduction par R. Molho. Garnier-Flammarion,  Paris 1969
C. A. Sainte-Beuve: Voluttà. Traduzione di U. Dettore. Rizzoli, Milano 1955